La Cassazione, con sentenza nr. 20158 dello scorso 3 settembre ha dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore, condannato per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti, seppur tale reato si era consumato fuori dagli ambienti di lavoro.
Sia il Tribunale di primo grado che, la Corte di appello, rigettavano la domanda di un lavoratore, dipendente di una Casa di Cura privata, licenziato dopo aver subito un a condanna per spaccio di sostanze stupefacenti che, proponeva ricorso in Cassazione. Gli Ermellini, confermando quanto dichiarato nella sentenza d’appello.
Per gli Ermellini, l’elencazione fatta dall’art. 41 del CCNL delle condotte legittimanti l’irrogazione della sanzione del licenziamento per giusta causa (tra cui, lo spaccio di sostanze stupefacenti all’interno della struttura) “ha valore puramente indicativo e certamente non tassativo laddove il fondamento del recesso possa essere individuato nella nozione legale di giusta causa e cioè in un comportamento di gravità tale da comportare la lesione del vincolo fiduciario tra le parti”.
Per la Cassazione, gli elementi ravvisabili in giudizio, “connotano più gravemente il fatto contestato rispetto all’ipotesi contemplata nel ccnl e cioè il fatto che la prestazione di lavoro si svolgeva in una casa di cura per degenti che opera come assistenza a pazienti di lungodegenza.
Pertanto, prosegue la Corte, “il sapere che un dipendente addetto a mansioni che si svolgono in un ambiente così particolare e delicato (riguardino o meno l’assistenza diretta agli anziani) è stato condannato per spaccio di cocaina non può che rompere il vincolo fiduciario tra le parti, apparendo connotato da un particolare disvalore ambientale … ed espone la Casa di Cura ad eventuali danni e ripercussioni potenzialmente molto negative, ove la circostanza venisse a conoscenza dei parenti di persone non in condizioni di autosufficienza che quindi contano sull’assoluta affidabilità del personale complessivamente addetto alla salvaguardia della loro salute e del loro benessere”.
Il fatto addebitato al lavoratore, conclude la Suprema Corte, “anche se commesso al di fuori dell’ambiente di lavoro, necessariamente è elemento idoneo ad incrinare il rapporto di fiducia tra l’azienda ed il dipendente, posto che la prima avrebbe dovuto continuare ad attribuire compiti implicanti rapporti stretti con anziani non autosufficienti a soggetto condannato per spaccio di cocaina”.