In tempi di pandemia l’utilizzo dello smart working è cresciuto in modo esponenziale e le ragioni son ben note. Da un lato, le necessità di tutela del diritto alla salute, in modo da evitare rischi di assembramenti sul luogo di lavoro; dall’altro la ferma volontà di non fermare le attività aziendali, evitando così pesanti ripercussioni sul fronte economico e dei bilanci.
Proprio in tema di lavoro da remoto, sono molto interessanti gli esiti della recente indagine Inapp, realizzata su un campione pari a più di 45mila interviste. I dati sono stati riportati dal noto quotidiano La Repubblica. Vediamo dunque qualche dettaglio sull’analisi effettuata.
Smart working: nuova esperienza per milioni di lavoratori e molti vorrebbero continuarla
La citata indagine è stata svolta dall‘Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche e ha fatto emergere che in Italia – nel 2021 – più di 7,2 milioni di persone hanno lavorato tramite pc e collegamento internet. In particolare, il 39,7% nella PA e il 30,8% nel settore privato. Si tratta di un totale pari ad un terzo dei lavoratori subordinati attivi nel nostro paese.
Vero è che vi è stata una sostanziale differenza rispetto all’anno peggiore della pandemia, ossia il famigerato 2020, periodo in cui si toccò il picco di quasi 8,9 milioni di lavoratori. Tuttavia, il dato è evidente: i lavoratori che hanno sperimentato lo smart working sono cresciuti enormemente rispetto al 2019.
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Un altro elemento assai interessante, in tema di smart working, emerge dall’indagine Inapp. Lo riporta il giornale La Repubblica: dallo studio “Il lavoro da remoto: le modalità attuative, gli strumenti e il punto di vista dei lavoratori“, svolto appunto dal citato istituto, appare evidente che quasi la metà dei lavoratori, il 46%, desidererebbe continuare a compiere la propria attività di lavoro giornaliero in modo agile almeno un giorno alla settimana. Mentre quasi una persona su quattro vorrebbe lavorare in smart working anche 3 o più giorni alla settimana.
Si tratta di dati che non lasciano spazio ai dubbi. Al di là dell’emergenza sanitaria, l’esperienza del lavoro agile ha convinto non pochi lavoratori, che infatti vorrebbero ripeterla o proseguirla.
Smart working e qualità della vita: alcuni dati interessanti dell’indagine Inapp
In verità, come emerge dalle analisi effettuate, vi sono precisi motivi alla base della volontà di proseguire nell’esperienza dello smart working. Essi sono legati a valutazione circa un possibile miglioramento della qualità della vita. Infatti, dall’indagine è emerso altresì che:
- potendo continuare a lavorare in smart working, oltre un terzo degli occupati si trasferirebbe in un piccolo centro, anche non lontano dalla città nella quale vive e lavora al momento, ossia un luogo più tranquillo della provincia o dell’entroterra;
- quattro persone su dieci invece si sposterebbero in maniera duratura in un luogo isolato a contatto con la natura:
- pur di lavorare da remoto un dipendente su 5 sceglierebbe di dire sì ad una possibile penalizzazione nella retribuzione.
Quanto appena riportato è il segnale che i lavoratori italiani, durante il periodo della pandemia, hanno avuto modo di fare una riflessione al di là della dimensione ‘lavorativa’. Infatti un ipotetico miglioramento nella qualità della vita rappresenta per molti un valore anche più rilevante di quello economico.
Smart working, il PNRR e il progetto di rivalutazione dei borghi italiani
Vero è dunque che il benessere psicofisico conta, al di là dell’ambizione, della carriera e del successo professionale. E ne sono consapevoli anche gli autori del PNRR, in quanto il piano nazionale di ripresa e resilienza ha previsto circa un miliardo di euro, per i progetti di rivalutazione di 250 borghi.
Come rileva La Repubblica, i bandi sono già stati pubblicati dal ministero della Cultura, la scelta dei borghi e l’assegnazione delle risorse dovranno compiersi entro il 30 giugno di quest’anno, invece i progetti dovranno essere ultimati entro il 2026. Proprio lo smart working ben si abbina alla vita nei borghi, consentendo appunto di lavorare ‘a distanza’.
Smart working, nell’indagine Inapp anche qualche aspetto negativo
Il Presidente dell’Inapp non ha comunque dubbi: nel complesso la valutazione dei lavoratori nei confronti dello smart working è da ritenersi positiva. Ma è pur vero che dall’indagine emergono altresì alcune criticità legate a specifici elementi, come ad esempio il problema della disconnessione e dei costi delle utenze domestiche, che inevitabilmente salgono – specialmente ora con l’aumento dei prezzi delle bollette.
La criticità principale è rappresentata dalle difficoltà di “staccare”, ossia di interrompere di fatto il collegamento da remoto con l’azienda. Infatti, in base alle risultanze dell’indagine, il diritto di disconnessione si esprime con difficoltà, anche perché il lavoro da remoto d’emergenza si è compiuto soprattutto senza accordi sindacali. E nell’ampia maggioranza delle ipotesi senza un accordo individuale. Queste percentuali pubblicate nell’indagine Inapp chiariscono in sintesi il citato problema:
- il 65% dei lavoratori del privato possono scegliere in maniera autonoma quando far valere il diritto alla disconnessione, contro il 50,1% del settore pubblico;
- più del 49% degli intervistati nell’ambito dell’indagine Inapp ha dichiarato altresì di potersi disconnettere soltanto per la pausa pranzo.
Qualche altra criticità individuata altresì nella tendenza all’isolamento, lamentata da alcuni, e nel fatto che lo smart working non aiuterebbe al miglioramento dei rapporti con i colleghi di lavoro.
In tanti però sottolineano altresì la possibilità di organizzare il lavoro con una certa flessibilità e di gestire gli impegni familiari in modo migliore.
In conclusione, l’indagine Inapp segnala che nel complesso il 55% dei lavoratori intervistati dà una valutazione positiva dello smart working. E’ molto probabile dunque che quella del lavoro da remoto non resti un’esperienza ‘confinata’ alla fase della pandemia, rappresentando invece una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa dall’indubbio futuro.
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