Tra il 1991 ed il 2022 i salari reali in Italia sono cresciuti solo dell’1% contro una media del 32,5% registrata nell’area OCSE. Questo è quanto emerge dal Rapporto Inapp – Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche – dal titolo Ripresa con il freno a mano tirato, pesano bassi salari, scarsa produttività, poca formazione, che ha messo in luce che a pesare in Italia è principalmente la bassa produttività. Dati che, sostanzialmente, sono stati confermati dall’OCSE, che ha rilevato che nel corso degli ultimi trent’anni il nostro Paese è l’unico nel quale è stata registrata una reale perdita dei salari reali del 2,9%. Nell’Est Europa, invece, le retribuzioni sono raddoppiate.
Giusto per avere un’idea di quanto stia accadendo nel resto dell’Europa, basti i salari sono aumentati:
- del 63% in Svezia;
- 39% in Danimarca;
- 33% Germania;
- 31% Francia;
- 25% Belgio ed Austria;
- 14% Portogallo;
- 6% Spagna.
Ma entriamo nel dettaglio e scopriamo cosa sta accadendo con i salari reali dei lavoratori.
Salari reali: in Italia sono troppo bassi
Da quello che emerge dal Rapporto Inapp, sostanzialmente, è che i salari reali italiani sono bassi. Ma non solo: la differenza tra quelli più alti e quelli minimi risulta essere una delle più esigue. Le retribuzioni più basse – quelle che risultano essere inferiori ai 2/3 del valore mediano, risultano essere inferiori alla media dell’Unione europea solo del 3,7%, mentre quelli superiori alla mediana – ossia quelli ritenuti alti – hanno degli importi inferiori del 19%.
Dopo la crisi pandemica le dinamiche del mercato del lavoro hanno ripreso a crescere ma con rallentamenti dovuti sia a fattori esterni, dal conflitto bellico alle porte dell’Europa, alla crescita dell’inflazione e della crisi energetica, ma anche a fattori interni, come il basso livello dei salari che si lega alla scarsa produttività, alla poca formazione e agli incentivi statali per le assunzioni che non hanno portato quei benefici sperati, se pensiamo che più della metà delle imprese (il 54%) dichiara di aver assunto nuovo personale dipendente, ma solo il 14% sostiene di aver utilizzato almeno una delle misure previste dallo Stato – ha spiegato Sebastiano Fadda, il presidente dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche -. Occorrono quindi degli interventi mirati e celeri capaci di indirizzare il mercato del lavoro verso una crescita più sostenuta, che non può prescindere dalla rivoluzione tecnologica e digitale che sta modificando i processi produttivi.
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La questione salariale
Ma per quale motivo i salari in Italia sono così bassi. Stando a quanto si apprende dal rapporto Inapp, nel periodo compreso tra il 1991 ed il 2022 la busta paga dei lavoratori italiani è cresciuta solo dell’1% a differenza di quanto è avvenuto nel resto dei paesi dell’area OCSE, dove è stata registrata una crescita del 32,5%.
Soffermandosi al 2020 – il terzo anno della pandemia da Covid 19 – in termini reali i salari hanno registrato un calo del 4,8%. Proprio nel 2020 è stata registrata la differenza più ampia con l’area OCSE: -33,6%. A questo si è andato ad aggiungere un ulteriore problema: a partire dalla seconda metà degli anni Novanta la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, segnando un divario massimo nel 2021 pari al 25,5%.
Non funzionano le agevolazioni per le assunzioni
Solo una piccola percentuale delle aziende ha ammesso che l’introduzione del programma di incentivazione per l’assunzione sia stato importante per prendere qualsiasi tipo di decisione: 4,5%. Solo le imprese di grandi dimensioni – quelle con più di 250 addetti – ritengono probabile ricorrere agli incentivi per le assunzioni: il 50% di queste sarebbe disposto a farlo. Percentuale che scende al 24% nelle microimprese.
Ad essere più disponibile ad utilizzarle sono principalmente le imprese del Mezzogiorno, dove la percentuale arriva al 38% delle imprese del Sud e al 36% per quelle delle isole.
L’incentivo più utilizzato è stata la Decontribuzione Sud che ha riguardato il 65% dei nuovi contratti, seguito dall’Apprendistato (20%) e dagli incentivi rivolti a target specifici: Esonero giovani con il 4,7% e Incentivo donne, che ha inciso per il 4,8% sull’occupazione totale – si legge nel rapporto -. Nonostante la pluralità di incentivi in campo, nessuno di questi istituti è riuscito ad attivare almeno il 50% di donne. Dunque, la composizione e il relativo squilibrio di genere restano immutati.
Cosa servirebbe realmente per arricchire i salari
Una soluzione che potrebbe servire per rivitalizzare il potere d’acquisto dei lavori arriva da Alberto Brambilla di Itinerari Previdenziali, che in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera suggerisce la detassazione dei fringe benefit e dei premi di risultato. Una soluzione che non creerebbe grossi problemi in futuro nemmeno per le casse dello stato, dato che su questa parte di retribuzione non verrebbe calcolata la pensione.
Ricordiamo che per il 2025 le aziende hanno la possibilità di erogare fringe benefit esentasse fino a 1.000 euro per tutti i dipendenti, importo che sale a 2.000 euro per quelli con dei figli a carico. Secondo Brambilla queste somme dovrebbero essere armonizzate con la normativa del welfare aziendale e renderle stabili nel tempo, perché permettono di far recuperare il netto dei redditi da lavoro dipendente.