Le apparecchiature di videosorveglianza possono essere installate nei locali aziendali solo in caso di rispetto della procedura prevista dall’art. 4 della L. n. 300/1970 (cd. “Statuto dei Lavoratori”). Dunque, a nulla rileva il consenso per iscritto di tutti i lavoratori con l’informazione della presenza delle telecamere; né tale pratica risulta essere idonea per sanare l’illecito datoriale che non ha seguito l’iter previsto.
Infatti, soltanto le rappresentanze dei lavoratori o, in alternativa, l’Ispettorato territoriale del lavoro, attraverso il proprio provvedimento, sono deputati ad esprimere il consenso, in quanto i lavoratori interessati sono “parte debole” nel rapporto, e ciò impone di ritenere inderogabile quanto previsto dal predetto articolo.
A questa conclusione sono giunti i giudici della Corte di Cassazione con la sentenza n. 50919 del 17 dicembre 2019.
Videosorveglianza a lavoro: il caso
Nel caso di specie, i giudici della Suprema Corte si sono espressi in merito a un datore di lavoro che aveva installato nella propria azienda, senza preventivo accordo sindacale ovvero autorizzazione della sede locale dell’Itl, n. 16 telecamere. Il Tribunale di Milano aveva giudicato a condotta datoriale illecita e contraria all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, condannando il datore di lavoro a pagare un ammenda di 1.000 euro.
Secondo i giudici, infatti, le telecamere non verificavano soltanto l’accesso al locale ma finivano, in realtà, per controllare anche i lavoratori nell’atto di espletare le loro mansioni. Dunque, a nulla poteva valere la circostanza che l’imputato avesse depositato una liberatoria sottoscritta da tutti i propri dipendenti, e precedentemente inviata all’Ispettorato.
Tale documento, tra l’altro non solo era stato formato successivamente alla materiale realizzazione della condotta a lui ascritta ed alla constatazione della sua esistenza, ma, in ogni caso, esso non poteva fungere da sostituto o della esistenza dell’accordo sindacale ovvero della autorizzazione rilasciata dall’organo pubblico.
La difesa
Il datore di lavoro impugnava la sentenza e ricorreva in Cassazione. Secondo il ricorrente, i giudici non avevano tenuto conto del tipo di attività svolta dall’imputato, ossia gestione di un locale, tale da giustificare una forma di controllo volto ad evitare il verificarsi di possibili eventi avversi all’interno del locale.
Inoltre, sottolineava il ricorrente, non è da considerare che i dipendenti – ossia la parte lesa nella vicenda – avevano prestato il loro assenso all’installazione delle telecamere. Ciò, a detta del datore di lavoro, dovrebbe essere elemento dirimente atto ad escludere la rilevanza penale della condotta datoriale.
Sentenza della Cassazione: il solo consenso dei lavoratori non basta
La Cassazione conferma la tesi dei giudici di primo e secondo grado di giudizio seguendo la giurisprudenza consolidata in materia. Secondo la Suprema Corte i motivi di ricorso del datore di lavoro sono manifestamente infondati. Innanzitutto, specificano gli ermellini, non ha alcun rilievo la circostanza secondo la quale l’impianto di registrazione visiva serviva a garantire la sicurezza degli stessi dipendenti.
Analogo discorso vale per quanto riguarda il mancato accesso, da parte del datore di lavoro, alle videoriprese visto che l’impianto attraverso il quale esse vengono effettuate gestito da un soggetto terzo.
Quindi, il consenso dei lavoratori che operano nell’impresa non risulta idoneo a sanare l’illecito, anche in considerazione del ruolo di “parte debole” che connota il lavoratore rispetto alla parte datoriale.
In definitiva, conclude la Cassazione, il consenso o l’acquiescenza che il lavoratore potrebbe, in ipotesi, prestare o avere prestato, non svolge alcuna funzione esimente; in tal caso, l’interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporne, rimane fuori della teoria del consenso dell’avente diritto.