Una recente pronuncia della Cassazione ci da lo spunto per parlare dello straining, una situazione di stress forzato o subìto sul posto di lavoro, solo in parte coincidente con il mobbing. Sempre più spesso i lavoratori dipendenti denunciano condizioni lavorative “stressogene”. Vale a dire situazioni conflittuali di stress forzato ed azioni ostili perpetrate dal datore di lavoro. Non è infrequente, ad esempio, che il dipendente subisca nel corso del rapporto lavorativo un demansionamento, un progressivo isolamento, la sottrazione di strumenti di lavoro e, più in generale, atteggiamenti di scherno o di intimidazione.
Tali condotte, anche se non reiterate nel tempo, possono determinare nel lavoratore condizioni di ansia, insoddisfazione, notti in bianco, attacchi di panico, perdita di fiducia in se stessi, apatia. Il comportamento aziendale appena descritto, noto anche con il termine “straining”, è senza alcun dubbio vietato e fonte di responsabilità per il datore di lavoro.
La rilevanza dello straining anche al di fuori da ipotesi di mobbing
Recentemente la Corte di Cassazione, con sentenza n. 7844 del 29.03.18, ha precisato i termini del problema, riconoscendo l’autonomia dello “straining” dal più generale fenomeno del “mobbing”. La Suprema Corte ha infatti affermato che situazioni “stressogene”, come quelle di cui sopra, possono determinare il diritto del lavoratore ad ottenere un risarcimento del danno. Anche nel caso in cui le stesse siano limitate nel numero, in parte distanziate nel tempo e poste in essere senza un preciso intento persecutorio. Quindi non rientranti, tout court, nei parametri del mobbing.
Condizione essenziale affinché possa essere considerata illecita la condotta aziendale è che la stessa sia di tale entità da provocare nel lavoratore:
una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa” ed “incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato
E’ vietato costringere il proprio dipendente a lavorare in condizioni di stress forzato
Situazioni lavorative di “stress forzato”, secondo la giurisprudenza, sono illegittime non essendo consentito, a nessun datore di lavoro, di mantenere in servizio un proprio dipendente in un ambiente di lavoro ostile.
Anzi, la legge prescrive a tutti i datori di lavoro di adottare tutte quelle misure. che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, siano sufficienti a tutelare, oltre che l’integrità fisica, anche la personalità morale dei propri dipendenti.
La norma di riferimento è contenuta nell’art. 2087 del Codice Civile:
L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Il lavoro e la salute come diritti fondamentali del lavoratore
Il danno alla salute determinato da “straining” merita quindi adeguata tutela risarcitoria, dovendosi ritenere imprescindibile il diritto di ogni lavoratore al normale e sereno svolgimento della propria prestazione lavorativa e la libera e piena esplicazione della propria personalità sul luogo di lavoro.
Il lavoro, infatti, non rappresenta solo l’attività attraverso la quale il lavoratore è in grado di procurarsi i mezzi necessari per soddisfare i propri bisogni primari, ma, nel suo significato “areddituale”, è lo strumento che consente a ciascuno di sviluppare la propria professionalità, di realizzarsi come persona umana e di contribuire al benessere proprio ed altrui.
Trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, nonchè tutelati dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, essi non possono essere soppressi né tantomeno violati con condotte che mirano allo svilimento della persona sul posto di lavoro ed alla compromissione del benessere e della salute del prestatore di lavoro.
Sentenza Cassazione Civ. Ord. Sez. 7844 del 29 marzo 2018
Cassazione Civile Ord. Sez. 7844 Anno 2018 (296,7 KiB, 1.219 hits)
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