Non sempre gli uffici si rivelano gli ambienti ideali per le proprie performance lavorative. Lo sanno bene le vittime di mobbing, ossia coloro che hanno subito – o subiscono – comportamenti vessatori da parte del datore di lavoro, dei superiori o dei colleghi, tali da produrre un danno alla salute psico-fisica. Ma, al contempo, anche le condotte inquadrabili nei casi di cd. straining, sono potenzialmente idonee a far cadere la vittima in una situazione di stress forzato, con effetti negativi anche permanenti. La differenza essenziale è che nello straining non sussiste l’elemento della continuità delle azioni lesive, tipico del mobbing, ma la condotta si sostanzia in una singola ed isolata azione molesta.
Ebbene, sulla scorta di queste premesse, merita di essere conosciuta e compresa una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 15957 del 7 giugno scorso: nel testo si afferma infatti il diritto al risarcimento per il lavoratore subordinato, che sia stressato per un clima ‘tossico’ sul luogo di lavoro.
Vediamo più da vicino questo interessante provvedimento del giudice di legittimità, il quale ribadisce il valore primario del diritto alla salute. I dettagli.
Atti vessatori in ufficio e tutela della salute: le norme di riferimento e il caso concreto
La Costituzione italiana (articoli 2, 32 e 41) dispone la tutela dell’essere umano nella sua integrità psico-fisica come principio fondamentale, ai fini della predisposizione di condizioni ambientali sicure e salubri. E, proprio sulla base dei principi costituzionali, la giurisprudenza ha rimarcato che la tutela del diritto alla salute del lavoratore si configura sia come diritto all’incolumità fisica, sia come diritto ad un ambiente salubre in senso ampio.
Mentre secondo l’art. 2087 Codice Civile:
l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
La salute di chi lavora è tutelata, inoltre, da quanto previsto nel noto d. lgs. n. 81 del 2008, ma anche dallo Statuto dei lavoratori e dai singoli Ccnl. Oltre al dato normativo, sono però le sentenze dei magistrati ad offrire protezione, anche in riferimento a situazioni di stress ingenerato nel lavoratore o nella lavoratrice vittima di atti vessatori.
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Il caso concreto che ha portato alla sentenza della Cassazione dello scorso 7 giugno riguarda una assistente amministrativa, che si è rivolta al tribunale al fine di conseguire il risarcimento danni per le vessazioni e gli atti ostili, subiti in ufficio dal capo. In secondo grado, la donna si è vista tuttavia rigettare la domanda di congruo ristoro economico, in quanto la Corte d’Appello di Bologna aveva ritenuto che le difficoltà relazionali erano collegabili alla stessa lavoratrice, la quale in passato aveva già ricevuto due sanzioni disciplinari.
Di fatto una conferma della sentenza di primo grado, a cui la Corte d’Appello era giunta in considerazione della genericità delle allegazioni di cui nel ricorso introduttivo, in merito alla lesività della condotta di colleghi e superiori. Al contempo questo giudice aveva ritenuto insussistente la relativa prova.
Lo straining come fatto ingiusto e fonte di risarcimento danni
Contro la decisione in secondo grado di giudizio, la dipendente pubblica aveva tentato la strada del ricorso per Cassazione, ottenendo un vero e proprio ribaltamento della situazione. Secondo la Suprema Corte, infatti, i problemi di relazione non escludono di per sé lo straining e, conseguentemente, la singola vessazione subita in un ambiente di lavoro insalubre e stressante costituisce – di per sé – un fatto ingiusto e tale da giustificare il diritto al risarcimento danni. La Corte sottolinea pertanto che questo diritto insorge anche in mancanza di una condotta mobbizzante e, dunque, caratterizzata da una pluralità di atti lesivi nel corso del tempo.
Inoltre, come ribadito nel testo della sentenza n. 15957 del 7 giugno scorso, per consolidato orientamento della Cassazione la nozione di mobbing – come quella di straining – è di ambito medico-legale, non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici ma serve ad individuare comportamenti in contrasto con l’art. 2087 del Codice Civile (responsabilità contrattuale), in materia di tutela delle condizioni di lavoro, e con la normativa di cui al d. lgs. n. 81 del 2008.
Più nel dettaglio per la Corte il comportamento lesivo della salute, e per cui chiedere il risarcimento danni, è integrato non soltanto dai gesti ripetuti di mobbing, ma anche dal citato straining, il quale ricorre quando vi siano:
comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie.
Anzi richiamando la propria giurisprudenza (ad es. Cass. n. 3692 del 2023 o Cass. n. 33639 del 2022) la Corte ha altresì ribadito che un ambiente lavorativo stressogeno:
è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 cod. civ.
Risarcimento danni ambiente di lavoro fonte di stress: la decisione della Cassazione
In sintesi, la Suprema Corte ha considerato non condivisibili le conclusioni dei giudici di merito, che avevano ritenuto le difficoltà relazionali imputabili anche alla lavoratrice in questione, senza però considerare che l’ambiente lavorativo stressogeno è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie pur se non necessariamente viene accertato l’intento persecutorio che unifica tutte le condotte denunciate (come richiesto per il mobbing), seppur apparentemente lecite o solo episodiche.
Concludendo, il ricorso della donna, mirato al risarcimento danni, è stato pertanto accolto: la sentenza della Corte d’Appello è stata cassata con rinvio alla stessa Corte (in diversa composizione) anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.