La Cassazione, con sentenza nr. 18211 dello scorso 24 ottobre, ha riconosciuto il diritto del lavoratore ad essere risarcito per il danno biologico subito a causa di stress, dovuto a super lavoro, anche se non lo ha mai rivendicato nel corso del rapporto di lavoro e anche, successivamente, al licenziamento.
Il caso ha riguardato un portiere notturno che, chiedeva, per motivi di salute di passare al turno diurno, ma, essendo il turno diurno già occupato da due lavoratori, il portiere veniva licenziato.
Stress da super lavoro
Il Tribunale di primo grado, pur dichiarando legittimo il licenziamento, condannava la società a risarcire al lavoratore la somma di 25.000 € per danno biologico accertato nella misura del 15% . Dello stesso tenore, la sentenza della Corte che, aveva anche riconosciuto una somma ulteriore ( pari a euro 1292,00) per differenze retributive.
La società, ricorreva in Cassazione, deducendo che la prestazione di un portiere non poteva essere considerata usurante per la sua peculiarità che prevede lunghe pause di inattività.
Sentenza Cassazione
Secondo gli Ermellini, il lavoro discontinuo, di cui all’art. 3 r.d.l. n. 692 del 1923, è caratterizzato da attese non lavorate, durante le quali il dipendente può reintegrare con pause di riposo le energie psicofisiche consumate, e che l’espletamento di lavoro straordinario è configurabile non solo ove sia convenzionalmente fissato un orario di lavoro e siano provate, anche in via presuntiva ed indiziaria, le modalità ed i tempi del servizio prestato nell’arco di tempo compreso tra l’orario iniziale e quello finale dell’attività lavorativa, così da tenere conto delle pause di inattività, ma anche allorquando l’attività lavorativa prestata dal dipendente oltre il limite dell’orario massimo legale, non operante nei suoi confronti, sia, alla stregua del concreto svolgimento del rapporto di lavoro, irrazionale e pregiudizievole del bene dell’integrità fisica del lavoratore stesso (v. in tal senso Cass. sez. lav. n. 5049 del 26/02/2008 e Cass. sez. lav. n. 1173 del 19/01/2009).
“Il criterio distintivo tra riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata del lavoro, e semplice temporanea inattività, computabile, invece, a tali fini, e che trova applicazione anche nel lavoro discontinuo, consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore, il quale, nel primo caso, può disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire una qualche limitazione, mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza di lavoro per ogni richiesta o necessità”.
Principio di ragionevolezza
Si è, infatti, affermato, prosegue la Corte, (Cass. Sez. Lav. n. 21695 del 14/08/2008) che “il principio di ragionevolezza, in base al quale l’orario di lavoro deve comunque rispettare i limiti imposti dalla tutela del diritto alla salute, si applica anche alle mansioni discontinue o di semplice attesa per le quali la variabilità, caso per caso, della loro onerosità – che dipende dalla intensità e dalla natura della prestazione ed è diversa a seconda che questa sia continuativa, anche se di semplice attesa, o discontinua – impedisce una limitazione dell’orario in via generale da parte del legislatore”.
Conclusioni
Nel corso del procedimento, è stato provato “lo svolgimento dell’orario indicato in ricorso, cioè dalle ore 21,00 alle ore 9,00 del mattino seguente”, come era stato provato “che durante tale turno il G. era addetto, quale portiere notturno, alla ricezione ed all’accoglienza dei clienti, oltre che alla custodia dei valori in cassaforte, mettendo completamente a disposizione della datrice di lavoro le proprie energie lavorative anche nei momenti di minor traffico, per cui le stesse non potevano non essere considerate effettive, con la conseguenza che era risultato lo svolgimento di un orario di lavoro superiore a quello ordinario, tale da dover essere remunerato come straordinario”.
Questa mole di super lavoro dunque, è stata riconosciuta come concausa del “disturbo depressivo ansioso cronico quale evoluzione di un disturbo dall’adattamento reattivo a situazione occupazionale stressante”, accusato dal lavoratore e, come tale, deve essere risarcito dall’azienda il danno biologico che da tale disturbo deriva.