Al di là del dato della legge o del contratto collettivo, sono i provvedimenti dei giudici a fare luce su una moltitudine di casi pratici che riguardano i licenziamenti di uno o più lavoratori. Proprio pochi giorni fa la Corte di Cassazione è nuovamente intervenuta sul vasto tema del recesso unilaterale in ambito lavorativo e – in particolare – ha spiegato che un licenziamento va considerato ritorsivo anche quando ‘coperto’ da una crisi aziendale in verità inesistente. Il caso che qui interessa attiene ad un dipendente che si era opposto alla trasformazione del rapporto a tempo pieno in tempo parziale, con conseguente decurtazione dello stipendio e dei contributi versati.
Stante la delicatezza e l’attualità del tema, vedremo insieme i maggiori aspetti dell’ordinanza n. 18547 emessa dalla Suprema Corte e risalente all’8 luglio scorso. Ecco i dettagli.
Che cos’è il licenziamento ritorsivo in breve
A chiarire subito il contesto di riferimento, premettiamo che – in generale – un licenziamento viene definito ‘ritorsivo’ se intimato dall’azienda o dal datore di lavoro come ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del dipendente – inerente a diritti dello stesso scaturenti dal rapporto di lavoro o legati a quest’ultimo.
La fattispecie del licenziamento ritorsivo si concretizza – dunque – in un recesso non per un motivo fondato, ma per “ingiustificata vendetta”, mirato sostanzialmente all’espulsione del lavoratore ‘scomodo’ per aver tenuto comportamenti del tutto legittimi, ma sgraditi all’azienda.
Leggi anche: il lavoratore può essere licenziato per acconciatura e abbigliamento inadatti? Ecco cosa sapere
In altre parole, si tratta di una reazione illegittima a un’azione legittima del dipendente come ad es. l’esercizio di un diritto sindacale, la richiesta di pagamento di differenze retributive o la presentazione di un reclamo o di un’azienda contro il datore di lavoro.
Più nel dettaglio, il licenziamento ritorsivo è nullo laddove il motivo di ritorsione, come tale illecito, sia stato il solo alla base della scelta del recesso unilaterale, sulla scorta del combinato disposto degli artt. 1418, comma 2,1345 e 1324 Codice Civile.
A riprova di ciò c’è ad es. l’ordinanza Cassazione n. 741 del 9 gennaio scorso, in base alla quale:
L’accoglimento della domanda di nullità del licenziamento perché fondato su motivo illecito esige la prova che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo dì recesso e idonei a configurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto.
La vicenda all’attenzione della Corte di Cassazione
Sulla scorta di queste premesse consideriamo l’ordinanza di cui sopra, giunta a seguito di un iter giudiziario che ha visto da una parte un lavoratore subordinato e dall’altra la sua società datrice di lavoro.
Ebbene, il licenziamento intimato su asserito giustificato motivo oggettivo – e quindi dipendente da difficoltà aziendali e non dal comportamento dell’uomo – era stato contestato in tribunale, in quanto – secondo il dipendente – detto recesso unilaterale:
- non era collegato ad una effettiva situazione di crisi aziendale, in realtà inventata dal datore per ‘giustificare’ la scelta dell’allontanamento;
- era invece di carattere ritorsivo, ossia mirato a costituire una sorta di vendetta e ingiusta e arbitraria reazione al comportamento legittimo, ma sgradito, del lavoratore.
Leggi anche: lavoratore disabile, licenziamento illegittimo se l’azienda non attiva una speciale procedura
Quest’ultimo punto, in particolare, si palesava nella lettura della Corte d’Appello, con la quale era stato ribaltato l’esito del primo grado riconoscendo un caso di licenziamento ritorsivo:
in ragione del concorso con gli ulteriori elementi presuntivi che erano stati acquisiti al giudizio: a partire dalla contiguità temporale del licenziamento rispetto al rifiuto che il dipendente aveva opposto alla trasformazione del suo rapporto di lavoro in un rapporto di lavoro part time ed alla iniziativa disciplinare che ne era conseguita da parte del datore di lavoro.
Contro la sentenza di secondo grado, favorevole al dipendente grazie all’imposizione della reintegra e di un risarcimento danni a carico della società, era seguito il ricorso di quest’ultima in Cassazione.
La decisione della Corte
In base all’art. 8 del d. lgs. n. 81 del 2015, il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
Nel caso affrontato dalla Cassazione, il recesso però non si caratterizza meramente come ingiustificato, bensì come ritorsivo perché, distingue la Corte nell’ordinanza:
- il licenziamento motivato dall’esigenza di trasformazione del part time in full time – e viceversa – va ritenuto ingiustificato perché adottato in violazione del citato art. 8, comma 1, d. lgs. 81/2015;
- il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time – ancorché ‘coperto’ da altre ragioni come l’asserito giustificato motivo oggettivo – va invece ritenuto ritorsivo.
E ciò in quanto:
mosso dall’esclusivo e determinante fine di eludere proprio il divieto di cui all’art. 8 d. lgs. 81/2015, attraverso un’ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta.
In altre parole, il licenziamento risultava non solo ingiustificato, ma anche ritorsivo perché esso traeva – in realtà – la propria esclusiva e determinante ragione nel no espresso dal lavoratore alla trasformazione del rapporto.
Ed anzi la Cassazione riconosce la bontà del ragionamento della Corte territoriale, usando queste parole:
Non risulta […] violata dalla Corte di appello la normativa del decreto legislativo n. 81 del 2015; ma nemmeno l’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 23 del 2015, in quanto la Corte di appello non ha sanzionato con la nullità un licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time (in quanto tale ingiustificato); ma un licenziamento per gmo motivato da inesistenti e strumentali ragioni riferite ad una crisi aziendale, cui era sotteso l’intento di reagire al legittimo rifiuto del part time.
Quanto al profilo sanzionatorio, la Cassazione ha altresì coerentemente rimarcato che il licenziamento ritorsivo è un licenziamento nullo perché illecito ed è incluso, dunque, tra i casi di nullità del licenziamento che conducono alla tutela reintegratoria piena.
Concludendo, la Suprema Corte ha in sostanza confermato le conclusioni del giudizio di secondo grado, rigettando il ricorso proposto dalla società e confermando l’illegittimità del licenziamento.