Un importante sentenza in merito alla natura dell’indennità pagata per la mancata reintegra sul posto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo è stata recentemente emanata dalla Consulta. Con la sentenza n. 86 del 21 aprile 2018, la Corte Costituzionale ha stabilito espressamente che non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 4, della L. n. 300/1970, come sostituito dall’art. 1, comma 42, lett. b), della L. 92/2012, sollevata dal Tribunale di Trento con riferimento all’art. 3 della Costituzione.
Infatti, in caso di licenziamento giudicato illegittimo e a seguito della mancata reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro, i Giudici hanno stabilito che l’indennità sostitutiva ovvero la somma pagata dal datore di lavoro è da considerarsi risarcitoria e non retributiva. Cosa significa? Qual è la differenza? È molto semplice.
Il datore di lavoro soccombente può rifiutarsi di eseguire l’ordine provvisorio di riammissione in servizio del dipendente licenziato illegittimamente. In caso di successiva riforma della sentenza di reintegrazione, il datore di lavoro potrà richiedere indietro la somma versata al lavoratore. Tuttavia se il licenziamento è giudicato definitivamente illegittimo, l’azienda dovrà reintegrare il lavoratore e le 12 mensilità versate in precedenza, quale indennità sostitutiva, sono da considerarsi a tutti gli effetti un risarcimento del danno e non anticipo di retribuzione.
Art. 18 e reintegra sul posto di lavoro: la vicenda
Il caso trae origine da una lavoratrice che si era opposta contro il decreto ingiuntivo del suo datore di lavoro.
Questi le aveva intimato la restituzione dell’indennità corrisposta per il periodo intercorrente tra la data del licenziamento e la data della sentenza che aveva riformato l’ordinanza di annullamento del licenziamento per giusta causa intimatole e di reintegrazione nel posto di lavoro, emessa a conclusione della fase sommaria.
Perché l’indennità ha natura risarcitoria?
Il principio di diritto deriva dal fatto che
“la concreta attuazione dell’ordine di reintegrazione non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro poiché ha per oggetto un facere infungibile”.
Pertanto, qualora il datore di lavoro non ottemperi a tale ordine di facere, tale comportamento è riconducibile a un “illecito istantaneo ad effetti permanenti”, che fa sopravvivere le conseguenze dannose del licenziamento annullato, da cui non potrà che derivare un’obbligazione risarcitoria a carico di colui che ha causato il danno.
Per questa ragione la sentenza commentata conferma la legittimità della disposizione normativa, affermando che la qualificazione risarcitoria dell’indennità
“non è dunque irragionevole, bensì coerente al contesto della fattispecie disciplinata, connotata dalla correlazione tra detta indennità ad una condotta contra ius del datore di lavoro e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente”.
Da qui nasce la natura risarcitoria, anziché retributiva dell’indennità, e l’obbligo del lavoratore di restituirla qualora l’ordine di reintegrazione venga riformato.
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Cosa rischia il datore che non reintegra il lavoratore?
La sentenza afferma, però, che “scommettere” sul fatto che venga riformato l’ordine di reintegra sul posto di lavoro, senza che il datore lo esegua, può essere molto rischioso in quanto è fonte di risarcimento dei danni da parte dell’azienda. In altri termini, il datore di lavoro può essere messo in mora dal lavoratore qualora si rifiuti di adempiere all’ordine di riassunzione provvisoriamente esecutivo.
Questo comporta l’opportunità per il lavoratore di chiedere all’azienda, in via riconvenzionale, il risarcimento dei danni subiti per il mancato reintegro, da quando è stato emesso l’ordine provvisoriamente esecutivo a quando è stato riformato.
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