I permessi della L. 104/92 spettano anche al convivente. E’ questo il risultato della sentenza della Corte Costituzionale, n. 213/2016 pubblicata il 23 settembre 2016.
La questione di legittimità costituzionale di questo articolo veniva sollevata dal Tribunale di Livorno a seguito di giudizio insorto tra una dipendente e l’azienda sanitaria; la prima chiedeva di vedersi riconosciuto il diritto ad usufruire dei permessi di assistenza di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 a favore del proprio compagno, convivente more uxorio e portatore di handicap gravissimo e irreversibile (morbo di Parkinson).
La questione di legittimità viene sollevata altresì per contrastare la pretesa della USL di recuperare nei suoi confronti – in tempo e in denaro – le ore di permesso di cui aveva usufruito per l’assistenza già prestata al proprio convivente nel periodo 2003-2010, su autorizzazione della stessa USL, poi revocata dalla Azienda, per l’assenza di legami di parentela, affinità o coniugio con l’assistito.
L’art. 33, comma 3, della legge n. 104/92, prevede, nel testo modificato dal cosiddetto Collegato lavoro, che:
…il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa
L’illegittimità costituzionale di tale articolo deriverebbe proprio dal fatto di non includere il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità. Tale norma, secondo la Consulta comporta una violazione degli artt. 2, 3 e 32 Cost.
La Corte di legittimità, ricostruisce la ratio legis posta alla base dell’istituto del permesso mensile retribuito di cui all’art. 33, comma 3, L. 104/1992, consiste nel favorire l’assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare. L’interesse primario tutelato dalla norma sarebbe dunque, quello di “assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare”.
La norma violerebbe i principi costituzionali dettati dagli artt. 2 e 32 relativi al diritto fondamentale alla salute psicofisica del disabile grave, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Il diritto alla salute psico-fisica, ricomprensivo della assistenza e della socializzazione, va dunque garantito e tutelato, al soggetto con handicap in situazione di gravità, sia come singolo che in quanto facente parte di una formazione sociale.
Per questo motivo non importa se l’assistenza si genera in un rapporto coniugale o di fatto. Quello che conta è “l’esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave”.
Ciò comporta che la mancata assistenza, si toglierebbe un diritto al soggetto più debole, non per mancanza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato “normativo” rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio.
L‘art 3 Cost. sarebbe violato per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile.
Illegittima la norma che limita a coniuge e parenti i permessi della legge 104
Dunque, conclude la Consulta la norma dell’art 33 L. 104/92 è contraria ai principi sanciti dagli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione e, per questo è illegittima nella parte in cui “non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado”.