Per ottenere la pensione è necessaria l’effettiva cessazione del rapporto di lavoro; si tratta infatti di una condizione dalla quale non è possibile prescindere. Ciò in relazione al fatto che rappresenta un requisito necessario ed indefettibile per il perfezionamento del diritto alla trattamento pensionistico.
Inoltre, nel caso in cui un lavoratore dia le dimissioni per pensionamento per poi essere riassunto lo stesso giorno in cui viene liquidata la pensione, la cessazione del rapporto di lavoro si intende simulata. In questo caso, quindi, è come se l’interruzione del rapporto di lavoro non fosse mai avvenuta. Infatti, le dimissioni si intendono effettuate al solo scopo di ottenere la pensione.
Qualora si realizzi una simile situazione, l’INPS può legittimamente revocare o comunque non concedere l’assegno di pensione. A ribadirlo sono i giudici della Corte di Cassazione con la sentenza numero 14417 del 27 maggio 2019. Ecco tutti i dettagli.
Dimissioni e pensione: il caso
Gli ermellini si sono espressi su un caso di un lavoratore che richiede lo sblocco della pensione, che è stata revocata dall’INPS. La motivazione sta nell’incumulabilità della stessa con redditi di altra natura. Il fermo dell’Istituto previdenziale era dovuto in conseguenza delle modalità con le quali il lavoratore si era dimesso.
In particolare, le dimissioni per pensionamento erano avvenute il 28 febbraio, ma il lavoratore aveva ripreso servizio il giorno dopo (1° marzo); sempre presso lo stesso datore di lavoro e per le medesime mansioni e livello. Nel frattempo, la pensione veniva liquidata il 1° marzo, esattamente il giorno in cui il lavoratore è tornato in servizio.
I giudici di secondo grado di giudizio, riformando la sentenza del Tribunale di Verona, stabilivano che la cessazione del rapporto lavorativo poteva legittimamente dimostrarsi dalla documentazione prodotta, consistente in:
- libretto di lavoro,
- corresponsione del Tfr
- e produzione dei prospetti paga.
I giudici di merito, tra l’altro, evidenziavano che nonostante la cessazione del rapporto di lavoro e la successiva riassunzione erano avvenute senza soluzione di continuità, non era comunque necessario rispettare un lasso temporale minimo ai fini della liquidazione della pensione, in conformità di quanto precisato dall’Inps con circolare n. 89/2009.
La sentenza
Non è dello stesso parere la Corte di Cassazione. Nel ripercorrere l’evoluzione normativa riguardante l’erogazione della pensione, gli ermellini sono giunti alla conclusione che, per conseguire il diritto al trattamento pensionistico è comunque necessaria, in caso di medesimo o diverso datore di lavoro, una soluzione di continuità fra i successivi rapporti di lavoro al momento della richiesta della pensione e della decorrenza della pensione stessa.
Ciò al fine di evitare che la percezione della pensione di anzianità avvenga contemporaneamente alla prestazione dell’attività lavorativa subordinata. Al fine di accertare l’effettiva discontinuità tra l’attività lavorativa prima e dopo l’erogazione della pensione, i giudici di legittimità affermano che non bisogna limitarsi alla ricerca di un mero dato temporale più o meno significativo.
Risulta, invece, necessario considerare che, laddove l’attività lavorativa successiva al pensionamento intercorra con il medesimo datore ed alle medesime condizioni di quelle proprie del rapporto precedente a tale evento, si configura una presunzione di simulazione dell’effettiva risoluzione del rapporto stesso al momento del pensionamento.
In sostanza, affinché non si realizzi la revoca della pensione, le parti dovranno dimostrare che il rapporto di lavoro attivato dopo la decorrenza della pensione presenti caratteristiche diverse rispetto al precedente.
Infatti, si ravvisa a tutti gli effetti una presunzione semplice del carattere simulato della cessazione del rapporto di lavoro; qualora essa sia seguita da immediata riassunzione del lavoratore, alle medesime condizioni, presso lo stesso datore di lavoro.