La Cassazione, con sentenza nr. 14643 dello scorso 11 giugno, torna a pronunciarsi in tema di mobbing e licenziamento, affermando che è illegittimo il licenziamento del dipendente per il superamento del periodo di comporto se, la malattia del lavoratore dipende dal mobbing subito.
La lavoratrice ricorreva in giudizio avverso il licenziamento intimato per per superamento del periodo di comporto, sostenendo che il lungo periodo di malattia ( stati depressivi, ansie e attacchi di panico)fosse dovuto da demansionamento illegittimo e altri comportamenti mobbizzanti da parte del datore di lavoro.
Il tribunale di primo grado, accoglieva le richieste della lavoratrice dichiarando illegittimo il licenziamento, ordinando la reintegra oltre al risarcimento dei danni subiti. La corte d’appello, confermava in parte la sentenza di primo grado (affermando la responsabilità dell’azienda nella lesione della salute della dipendente), modificandola solo nella parte relativa all’importo del risarcimento. La società ricorreva dunque in cassazione.
Gli Ermellini confermano quanto già acclarato nei precedenti grafi di giudizio ossia, che “le assenze per malattia della dipendente fossero dovute all’illegittimo e discriminatorio comportamento datoriale e che quindi, non fossero da computare al fine del periodo di comporto”.
La Suprema Corte richiamando la sentenza nr. 3785/2009 ribadisce il concetto di mobbing quale “condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta bel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio – psichico e del complesso della sua personalità….”.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro pertanto, sono rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico – fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Sulla base di queste linee guida, gli Ermellini ritengono che il caso di specie configuri una pratica di mobbing, poichè, l’atteggiamento tenuto dal responsabile alle vendite nei confronti della lavoratrice “un vero e proprio svuotamento di mansioni al fine di rendere la vita impossibile alla dipendente e costringerla alle dimissioni”. Pertanto, la lunga assenza per malattia della dipendente dovuta all’illegittimo e discriminatorio comportamento datoriale non è da computare ai fini del periodo di comporto; di conseguenza, il licenziamento è da ritenersi illegittimo.