Attenzione agli scontri verbali con il proprio datore di lavoro o superiore gerarchico. Infatti, litigare verbalmente può portare – in casi estremi – anche al licenziamento del dipendente. Ciò può avvenire indipendentemente che l’evento si realizzi al di fuori o all’interno dei locali aziendali. Quindi, anche se il litigio si consuma all’esterno dell’azienda, ma per fatti inerenti alla stessa, è comunque possibile procedere con l’extrema ratio.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13411 dell’1 luglio 2020. Nel giudizio, inoltre, gli ermellini affermano che la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori.
Tale condotta si estende anche a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento delle medesime disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale.
Litigio con superiore gerarchico: il caso
Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata ad esprimersi in merito a un licenziamento disciplinare che una società aveva inflitto ad un proprio dipendente. Lo stesso, in pratica, aveva adottato – da una parte –una condotta di insubordinazione e – dall’altra – la violazione delle regole di correttezza per aver minacciato una collega.
Il prestatore, in poche parole, si era opposto al licenziamento lamentando, tra gli altri motivi, l’insussistenza di una condotta di insubordinazione. Ciò in relazione al fatto che non sussisteva un rapporto gerarchico tra lui e la collega minacciata.
A suo parere, non sussisteva neppure un’infrazione disciplinare, in quanto il diverbio si era verificato a giornata lavorativa ormai conclusa.
Responsabilità anche fuori dall’azienda
Le motivazioni del dipendente, però non hanno trovato accoglimento in sede di secondo grado di giudizio. I giudici di merito, infatti, avevano fatto presente che il rapporto gerarchico si ha qualora vi sia una “sovraordinazione”, non soltanto nell’ambito dell’esecuzione della prestazione lavorativa, ma anche in un contesto più peculiare, quale era, nel caso in esame, quello proprio del settore amministrativo di cui la collega era responsabile.
Tra l’altro, la questione che il diverbio si fosse consumato fuori dell’orario di lavoro non escludeva la riferibilità dello stesso a rapporti infraziendali. A maggior ragione se esso, in realtà, aveva avuto ad oggetto proprio obblighi e diritti connessi alla fruizione di servizi/beni aziendali.
Lite verbale con il datore di lavoro: quando scatta il licenziamento
Alla stessa conclusione giungono gli ermellini. La Suprema Corte, infatti, ha evidenziato come il concetto di “insubordinazione” vada determinato anche alla stregua dell’accezione lessicale e del significato del termine nel linguaggio giuridico ed in quello corrente.
Nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, in altre parole, la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori. Tale termine, infatti, “implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale”.
Nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno evidenziato che la fattispecie integrava la violazione della diligenza e buona fede (art. 2014 cod. civ. e 2015 cod. civ.). Pertanto, il licenziamento è comminato al lavoratore che commette gravi infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel luogo di lavoro.
La palese minaccia verbale era stata accompagnata da un atteggiamento intimidatorio, con cui il colloquio si era concluso. Minaccia che corrispondeva a quella di voler chiedere “conto” della condotta della responsabilità amministrativa fuori dall’azienda. Quindi, la serietà della minaccia, per come percepita dalla persona offesa, era palesemente idonea ad incutere timore.