Il lavoratore che rientra in servizio da un lungo periodo di malattia, può essere licenziato per motivi economici legati alla riorganizzazione aziendale e conseguente soppressione di alcuni posti di lavoro? Secondo i giudici della Corte di Cassazione no, soprattutto se la motivazione riorganizzativa alla base del licenziamento è inesistente. In tali casi, infatti, così come specificato dalla sentenza n. 23583 del 23 settembre 2019, si configura l’ipotesi di licenziamento ritorsivo, in quanto la malattia è l’unico elemento a sostegno del licenziamento.
Comunque, affermano gli ermellini, l’onere della prova del carattere ritorsivo del provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul dipendente. Quest’ultimo può assolverlo con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia.
Licenziamento al rientro dalla malattia: la vicenda
La Suprema Corte si è espressa su un caso di licenziamento avvenuto subito dopo il rientro del lavoratore dalla malattia. L’extrema ratio è stata adottata per motivi legati alla riorganizzazione aziendale che, in realtà, sono risultati assolutamente fittizi e privi di fondamento.
Il caso riguarda un operaio specializzato con mansioni di incisore pantografista, il quale, al momento del suo rientro in servizio dopo una lunga assenza del malattia (dal 18 giugno 2015 al 29 gennaio 2016), ha ricevuto una lettera di licenziamento. La missiva indicava come motivazione la scelta organizzativa di chiudere il settore produttivo della bigiotteria, argenteria e ottone per il calo di commesse riguardante tale settore. Da ciò derivava la soppressione della posizione e della funzione ricoperta dal lavoratore in azienda e impossibilità di ricollocamento in altre mansioni uguali o equivalenti.
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Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Firenze, accogliendo il reclamo del lavoratore, ha dichiarava la nullità del licenziamento perché intimato per ritorsione. Dunque, i giudici di merito hanno dato applicazione all’art. 18, co. 1 dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970), condannando la società a:
- reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro;
- risarcire il danno in misura pari alle retribuzioni dal giorno di licenziamento sino a quella dell’effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
Infatti, secondo i giudici di secondo grado non si era in presenza di un’ipotesi di ristrutturazione aziendale, ma di un’ipotesi di mera riduzione delle mansioni del reclamante. Inoltre, appare non giustificata la scelta di licenziare il reclamante in luogo del collega, meno anziano in servizio e con minori capacità e competenze.
Il datore di lavoro impugnava la sentenza e ricorreva in Cassazione
La sentenza
I giudici della Suprema Corte confermano la sentenza di secondo grado e dichiarano il licenziamento illegittimo. Innanzitutto, gli ermellini ricordano che deve essere considerato ritorsivo il licenziamento determinato esclusivamente dal motivo illecito determinante di cui all’art. 1345 cod. civ.
Secondo i giudici di legittimità, il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato in assenza della c.d. rappresaglia. In altre parole, il motivo ritorsivo deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dalla insussistente motivazione formale addotta per giustificare il provvedimento espulsivo.
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Nel caso in questione gli ermellini affermano che il provvedimento espulsivo è di natura ritorsiva, poiché è stata esclusa la sussistenza in concreto del giustificato motivo oggettivo addotto da parte del datore di lavoro.
In particolare, in una valutazione globale del caso, i giudici di legittimità hanno stabilito che l’iniziativa datoriale non trovasse altra plausibile e ragionevole spiegazione del licenziamento se non la rappresaglia per la lunga malattia.