Grazie alle sentenze ed ordinanze frequentemente redatte e pubblicate, la Corte di Cassazione offre una panoramica molto interessante sui vari casi pratici, che possono condurre al licenziamento per giusta causa. Essi costituiscono precedenti giurisprudenziali utili ad orientare i comportamenti dei datori di lavoro e dei dipendenti, e ad evitare contestazioni in tribunale.
Recentemente, con l’ordinanza n. 17267, la Suprema Corte ha dichiarato la legittimità, e quindi la piena validità degli effetti del licenziamento per giusta causa, inflitto ad un operatore sanitario di una casa di cura. Egli – costituendo un caso di insubordinazione – aveva infatti negligentemente e ripetutamente violato le regole aziendali e disciplinari in tema di abbigliamento e look dei capelli e della barba.
Vediamo insieme i maggiori dettagli della questione e perché la Cassazione è giunta a questa conclusione, ma prima vediamo in breve cos’è e come funziona il codice di condotta e di comportamento dei lavoratori.
Codice di condotta e di comportamento dei lavoratori: cos’è e a cosa serve
Il codice di condotta e di comportamento aziendale è un insieme di linee guida che regolano il comportamento etico e professionale dei dipendenti di un’organizzazione. Applicabile a tutti i livelli, il codice copre temi come la prevenzione della corruzione, la gestione dei conflitti di interesse, il rispetto delle leggi, la tutela delle informazioni riservate e la promozione della diversità e dell’inclusione.
Questo documento è fondamentale per prevenire comportamenti inappropriati o illegali, proteggendo l’azienda da rischi legali e reputazionali. Include politiche contro le molestie e stabilisce linee guida per una comunicazione coerente con i valori aziendali. La trasparenza è essenziale: i dipendenti sono incoraggiati a segnalare violazioni attraverso canali protetti.
L’implementazione efficace richiede formazione continua per assicurare la comprensione delle aspettative comportamentali. In sintesi, il codice di condotta è cruciale per una governance etica, creando un ambiente di lavoro sano e produttivo e rafforzando la fiducia tra l’azienda e i suoi stakeholder.
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Licenziamento per violazione del codice di abbigliamento e acconciatura: la vicenda
Con sentenza la Corte d’appello di Roma – in accoglimento del reclamo principale della struttura per l’assistenza sanitaria – ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare, intimato al lavoratore. L’esito del secondo grado aveva di fatto ribaltato quello del primo che, in esito a rito Fornero, aveva accolto la tesi della ritorsività del recesso unilaterale.
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Sono le parole contenute nell’ordinanza della Cassazione a illustrare i contorni della vicenda e il contesto da cui si è poi giunti allo step presso i giudici di Piazza Cavour. In particolare nel testo si può leggere che:
la Corte territoriale ha argomentatamente scrutinato le risultanze istruttorie e ritenuto la fondatezza degli addebiti disciplinari di reiterata inosservanza, nei giorni 4, 5 e 9 maggio 2018 (rispettivamente contestati in date 9 e 18 maggio e 6 giugno 2018), delle disposizioni regolamentari di divieto, per il personale a diretto contatto con i pazienti della R.S.A. quale il lavoratore (passato dalle mansioni di portantino a quelle di operatore sanitario ausiliario), di indossare in servizio monili (vistosa catena a larghe maglie al collo, anelli, un grosso bracciale e un voluminoso orologio tutti di metallo) o acconciature (un lungo pizzetto al mento), in quanto veicoli di contagio per pazienti fragili e immunodeficienti.
Tali comportamenti, secondo il giudice del secondo grado, avrebbero violato l’art. 40 del Ccnl applicato, costituendo atti di insubordinazione e gravi negligenze in servizio. In particolare tali violazioni disciplinari avrebbero potuto arrecare pregiudizio alla salute di pazienti già debilitati e, al contempo, avrebbero potuto ledere l’immagine della casa di cura.
In ragione di ciò la Corte territoriale – in merito al licenziamento – ha escluso la natura:
- discriminatoria, genericamente allegata dal lavoratore per la sua qualità di rappresentante sindacale interno;
- ritorsiva, poiché non sarebbe comunque ragione esclusiva del recesso per la presenza dei comportamenti summenzionati.
Ecco perché il giudice di secondo grado ha ritenuto proporzionato il licenziamento disciplinare inflitto all’infermiere della struttura sanitaria, in quando conseguente all’irrimediabile lesione del rapporto di fiducia tra le parti del contratto di lavoro.
A seguito della decisione il lavoratore ha fatto ricorso in Cassazione.
La decisione della Cassazione
Presso il giudice di legittimità, il ricorrente ha dedotto – si legge nell’ordinanza – violazione e falsa applicazione, tra gli altri, degli artt. 2119 e 2697 c.c. relativi rispettivamente al recesso per giusta causa e all’onere della prova, degli artt. 3 e 4 legge n. 604/1966 e art. 3 legge n. 108 del 1990 recanti norme sui licenziamenti individuali e dell’art. 15 legge n. 300/1970 in tema di atti discriminatori sul luogo di lavoro.
Ebbene, a seguito di un’articolata e complessa motivazione, in cui la Cassazione ha colto l’occasione per fare nuovamente chiarezza – dal lato giuridico e da quello fattuale – sull’ampio tema del licenziamento nullo, ribadendo il proprio consolidato orientamento giurisprudenziale in riferimento agli elementi che connotano – rispettivamente – le distinte fattispecie del licenziamento ritorsivo e del licenziamento discriminatorio (congiuntamente invocate dal dipendente), ha in sostanza ribadito la bontà delle conclusioni del giudice di secondo grado.
Se pertanto, da una parte, la Cassazione nell’ordinanza ha:
- tenuto conto del principio per cui il licenziamento discriminatorio è illecito perché, a prescindere dalla motivazione apparente, consiste nell’espulsione del dipendente, intimata sulla scorta della mera avversione verso un ‘elemento differenziante’ come ad es. l’appartenenza sindacale, la religione, il sesso, l’età, la presunta ‘razza’ o l’origine etnica, la partecipazione a uno sciopero ecc.
- ribadito il principio di diritto in tema di licenziamento ritorsivo (comportamento del lavoratore non gradito ma lecito), per cui: l’accertamento della sua nullità è subordinata alla verifica che l’intento di vendetta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di risolvere il rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, rispetto ai quali va quindi escluso ogni giudizio comparativo (Cass. 7 marzo 2023, n. 6838),
- dall’altra ha al contempo confermato le sentenze di merito, ritenendo non dimostrata e allegata soltanto in maniera generica la natura discriminatoria del licenziamento, così come quella ritorsiva (che, quand’anche sussistente, non sarebbe stata esclusiva, posta l’effettiva sussistenza dei comportamenti di cui sopra).
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In particolare la Corte di appello:
ha accertato una “persistente volontà di disattendere le prescrizioni aziendali”,
e ha inoltre, anche senza una formale contestazione di recidiva:
correttamente apprezzato la rilevanza della reiterazione della condotta.
Conclusioni
Concludendo, acclarata la violazione ripetuta delle norme disciplinari e aziendali sull’abbigliamento e sulle acconciature di barba e capelli, la Cassazione ha così deciso per il rigetto del ricorso e per la condanna del lavoratore ricorrente alla rifusione, in favore del datore di lavoro, alle spese del giudizio.