Come è noto, il licenziamento collettivo consiste in un particolare tipo di recesso del datore di lavoro che coinvolge non uno, ma un insieme di lavoratori e che implica la soppressione dei posti di lavoro in conseguenza alla riduzione, trasformazione o cessazione di attività. In estrema sintesi, il licenziamento collettivo è un iter a disposizione di aziende con specifici requisiti, che debbano procedere ad una contrazione della forza lavoro nelle ipotesi di cui alla legge.
Ebbene, proprio in riferimento a questo delicato tema, sia per la carriera del singolo lavoratore sia per la produttività di un’impresa, rileva la recente sentenza della Corte Costituzionale, secondo cui la normativa del cd. Jobs Act deve ritenersi legittima.
Si tratta in particolare della sentenza n. 7 depositata il 22 gennaio scorso, con la quale questo giudice ha dichiarato la legittimità dei licenziamenti collettivi, in applicazione della disciplina prevista dai decreti attuativi del Jobs Act. Vediamo più da vicino alcune indicazioni molto utili che giungono dalla Consulta.
Licenziamenti collettivi e Jobs Act: la decisione della Consulta e il contesto di riferimento
La sentenza è di estremo rilievo sul fronte dei rapporti di lavoro, in quanto con essa la Corte Costituzionale:
- ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative agli artt. 3, primo comma, e 10 del d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23. Il provvedimento, in attuazione della legge di delega n. 183 del 2014 – il cd. Jobs Act – inserì nell’ordinamento il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti in rapporto all’anzianità di servizio;
- ha stabilito la legittimità della disciplina del Jobs Act in tema di licenziamenti collettivi, nonostante le censure mosse e che hanno portato al suo intervento.
La sentenza infatti è frutto dell’iniziativa della Corte d’appello di Napoli, che aveva espresso dubbi sulla legittimità costituzionale della disciplina dei licenziamenti collettivi – in tema di conseguenze della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero.
Si ricorda altresì che, in base alle regole di cui al Jobs Act, l’attuale formula del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti circoscrive la facoltà di reintegra nel rapporto di lavoro a pochi casi di licenziamento illegittimo. Per tutte le altre situazioni introduce un sistema di indennizzi economici, che cresce per ciascun anno di servizio del lavoratore e – proprio per questo – si tratta di ‘tutele crescenti’.
Tutela reintegratoria, indennizzo e licenziamenti: la Corte fa il punto sul Jobs Act
Come appena accennato, nei confronti dei lavoratori è stata disposta una tutela indennitaria, compensativa del danno subito dal dipendente per la perdita del lavoro, ma non più la tutela reintegratoria nel posto di lavoro, in applicazione delle nuove norme in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Più nel dettaglio, spiega la Corte nella sentenza, la legge delega aveva escluso la possibilità di reintegra dei dipendenti assunti con tutele crescenti, in caso di “licenziamenti economici” – ovvero disposti per motivazioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Al contempo, il nuovo assetto normativo aveva indicato la tutela dell’indennizzo, circoscrivendo il diritto al ritorno sul posto di lavoro ai meri licenziamenti nulli, inefficaci e discriminatori e a particolari casi di licenziamento disciplinare ingiustificato.
Proprio il mutato scenario normativo ha costituito il ‘terreno’ per la sentenza della Corte di cui sopra. Ebbene questo giudice:
- ha escluso che ci sia stata – come aveva indicato invece la Corte d’appello di Napoli – la violazione dei criteri direttivi della legge delega;
- tenuto conto dei lavori parlamentari e della finalità complessiva di cui al Jobs Act, ha ritenuto che il riferimento contenuto nella legge delega ai “licenziamenti economici” attenesse sia ai licenziamenti individuali, per giustificato motivo oggettivo, sia a quelli collettivi.
Ulteriori chiarimenti
Inoltre, nella sentenza n. 7 del 2024 della Consulta si è ritenuta non fondata la censura di violazione del principio di eguaglianza avanzata dalla Corte di Appello di Napoli. In particolare la Corte sottolinea che il riferimento temporale alla data di assunzione permette di differenziare le situazioni, ovvero:
- la nuova normativa dei licenziamenti è mirata a favorire l’occupazione e a combattere il precariato ed è pertanto prevista soltanto per i lavoratori più giovani o ad inizio carriera;
- il legislatore non era obbligato, dal lato dei dettami della Costituzione, a rendere applicabile questa nuova disciplina anche a chi era già sotto contratto.
Di fatto si tratta della comparazione tra i lavoratori “anziani” (ovvero quelli assunti fino al 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del Jobs Act), che mantengono la più favorevole disciplina anteriore e, dunque, la reintegrazione nel posto di lavoro, e i lavoratori “giovani” (quelli assunti da quella data), cui si applica la nuova disciplina del Jobs Act.
Tuttavia, pur avendo dichiarato legittima la disciplina del Jobs Act sui licenziamenti collettivi, la Corte – come si legge nel comunicato stampa in commento alla sentenza – ha ritenuto:
non inadeguata la tutela indennitaria. Attualmente al lavoratore illegittimamente licenziato all’esito di una procedura di riduzione del personale spetta un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari al numero di mensilità, dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, determinato dal giudice in base ai criteri indicati da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.
Ciò non toglie che la Corte abbia rimarcato al legislatore che questa materia, risultato di interventi normativi successivi nel corso del tempo, dovrà essere rivista nel suo complesso. Per ulteriori informazioni rinviamo comunque al testo della sentenza n. 7 del 2024.