La Cassazione, con sentenza nr. 4984 dello scorso 4 marzo, riconosce il diritto del datore di lavoro di ricorrere anche alle investigazioni private sul dipendente per controllare l’utilizzo dei permessi di cui alla ex 104/92 sia a tutela del patrimonio aziendale che, per verificare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli articoli 2086 e 2104 c.c..
Il caso ha riguardato un lavoratore che è stato licenziato a seguito di contestazione disciplinare, con la quale, si addebitava al lavoratore l’illecito utilizzo di un permesso ex art. 33 L. nr. 104/92 per fini del tutto estranei a quelli previsti dalla legge.
L’azienda, attraverso degli accertamenti svolti da una agenzia investigativa, appurava che il proprio dipendente, il giorno del permesso, “fosse partito con valigia ed amici mettendo tra se e la finalità di assistenza del permesso una distanza ed una previsione di rientro non prossimo, che rendevano evidente come lo stesso fosse stato utilizzato per altre finalità che la legge garantiva con l’istituto delle ferie”.
Il lavoratore chiedeva pronunciarsi l’illegittimità del licenziamento e la conseguente reintegra nel posto di lavoro sul presupposto dell’illegittimità del controllo operato dalla società ai fini dell’accertamento del fatto poi contestato in sede disciplinare e della conseguente inutilizzabilità della prova, in assenza di un illecito che giustificasse l’attività investigativa.
Il giudice di primo grado accoglieva la domanda del lavoratore; di diverso avviso la Corte d’appello secondo la quale riconosceva la natura di illecito , “dell’abuso del diritto di cui alla Legge n. 104 del 1992, articolo 33 tanto ai danni dell’INPS che erogava l’indennita’ relativa ai giorni di permesso, sia ai danni del datore di lavoro a cui carico restavano per tali giornate l’accantonamento per il t.f.r. ed i disagi per fare fronte all’assenza”.
Gli Ermellini, ribadendo costante giurisprudenza in ordine alla portata delle disposizioni (Legge n. 300 del 1970, articoli 2 e 3), che delimitano – a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali – la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi – e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (articolo 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (articolo 3) –, chiariscono che tali norme “non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (quale, nella specie, un’agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, ne’, rispettivamente, di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli articoli 2086 e 2104 c.c, direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica.
Ciò non esclude, prosegue la sentenza, “ che il controllo delle guardie particolari giurate, o di un’agenzia investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, ne l’adempimento, ne l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione (cfr., in tali termini, Cass. 7 giugno 2003, n. 9167).
Tale principio è stato ribadito ulteriormente, affermandosi che le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’articolo 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590).
Ne’ a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d’opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro (cfr. Cass. 10 luglio 2009 n. 16196).
Nel caso considerato il controllo finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi Legge n. 104 del 1992, ex articolo 33, (suscettibile di rilevanza anche penale) non ha riguardato l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo stato effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa. Deve, pertanto, ritenersi che la decisione impugnata sia conforme ai principi sanciti in materia ed in linea con gli orientamenti giurisprudenziali richiamati”.
“Il non esercizio o l’esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall’ordinamento. L’abuso del diritto, può dunque avvenire sotto forme diverse, a seconda del rapporto cui esso inerisce, sicchè , con riferimento al caso di specie, rileva la condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto al permesso si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione dell’affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre rileva l’indebita percezione dell’indennità e lo sviamento dell’intervento assistenziale nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico.
In base al descritto criterio della funzione, concludono i Giudici di legittimità, “deve ritenersi verificato un abuso del diritto potestativo allorchè il diritto venga esercitato, come nella specie, non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività.
La condotta del lavoratore si è posta in contrasto con la finalità della norma su richiamata, e pertanto la sua connotazione di abuso del diritto e la idoneità, in forza del disvalore sociale alla stessa attribuibile, a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario correttamente sono state ritenute dal giudice del gravame capaci di integrare il comportamento posto dal datore a fondamento della sanzione disciplinare”.