Per vedersi riconosciuto il risarcimento del danno da mobbing, basta la semplice affermazione del lavoratore di averle subite? La risposta arriva direttamente dalla Corte di Cassazione con la sentenza l’Ordinanza n. 23918 del 25 settembre 2019. Sul punto, i giudici di legittimità hanno affermato che a prova dell’elemento intenzionale e vessatorio del datore di lavoro può essere fornita solo attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti. A nulla rilevano, quindi, le semplici affermazioni del lavoratore.
Si ricorda, al riguardo, che con il termine mobbing s’intende il comportamento del datore di lavoro (o dei suoi dipendenti) volto a perseguitare un dipendente per emarginarlo. Lo scopo è quello di ledere la sua dignità umana e professionale, al fine di spingerlo a presentare le dimissioni. Quando il mobbing è realizzato da un superiore è anche definito “bossing”. Il lavoratore vittima di questo comportamento nel suo complesso illecito può ottenere il risarcimento dei danni in alcuni casi. Quali sono dunque gli elementi principali che possono indurre il soggetto che ha subito attività di mobbing a richiedere il risarcimento del danno subito? Ecco cosa dice la Cassazione.
Danno da mobbing: la vicenda
I giudici della Suprema Corte si sono espressi in merito a un caso di mobbing subito da una lavoratrice sul luogo di lavoro. In particolare, la lavoratrice chiedeva:
- l’illegittimità del mutamento di orario disposta nei suoi confronti dalla datrice di lavoro;
- l’illegittimità del trasferimento disposto dalla società;
- l’accertamento del suo demansionamento;
- l’accertamento della disparità di trattamento rispetto agli altri colleghi uomini ammessi al telelavoro notturno;
- la discriminazione sessuale posta in essere nei suoi confronti.
Nel caso di specie, la lavoratrice lamentava non soltanto di essere stata trasferita, con variazione della qualifica e orario di lavoro diurno, ma è stata disposta anche la diminuzione della retribuzione ed aumento delle spese di viaggio. Tale situazione le causò un disturbo ansioso depressivo, anche a causa del diniego di proseguire, come altri suoi colleghi uomini, nel telelavoro notturno. Nonostante la lavoratrice abbia continuato a lavorare per altri quattro anni, fu poi costretta a dimettersi con riduzione dell’importo pensionistico.
La Corte d’Appello accoglieva solo parzialmente la domanda della lavoratrice. I giudici di merito hanno ritenuto:
- la legittimità del trasferimento e del conferimento delle nuove mansioni, giudicate non inferiori alle precedenti;
- la idoneità della nuova retribuzione corrisposta, sicché non sussisteva alcun danno pensionistico;
- l’insussistenza del diritto all’indennità sostitutiva del preavviso, essendosi essa peraltro dimessa dopo quattro anni dal dedotto demansionamento.
Contro la sentenza di secondo grado ricorreva la lavoratrice, che ha impugnato le sentenza rivolgendosi alla Corte di Cassazione.
Come provare danno da mobbing: la sentenza
I giudici della Suprema Corte hanno respinto il ricorso della lavoratrice e dato ragione alla società. Innanzitutto, secondo gli ermellini, le mansioni sono da ritenere equivalenti per mancata adeguata esposizione dei fatti di causa. In pratica, non è stato ben indicato dal ricorrente l’inquadramento posseduto e quello superiore eventualmente conseguito.
Quanto al riconoscimento del danno da mobbing, i giudici di legittimità fanno presente come nessuna prova del necessario elemento intenzionale (e vessatorio) del datore di lavoro fosse stata fornita dalla lavoratrice. Al riguardo, chiarisce la Cassazione, seppure tale prova può essere fornita attraverso presunzioni, esse debbono essere gravi, precise e concordanti. Nel caso di specie, invece, la lavoratrice si limita solamente a dedurre che mentre ai colleghi fu consentito di proseguire con la modalità di telelavoro notturno, solo a lei ciò fu impedito.
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