Non di rado la giurisprudenza offre interessanti orientamenti ed indicazioni in tema di licenziamento e in particolare, la recente sentenza n. 29337 della Cassazione ha stabilito che il dipendente che non accetta di trasformare il suo rapporto da part time a full time, può essere mandato via – ma non per il no opposto al cambio di orario – bensì a causa della impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo parziale.
La Suprema Corte ha così spiegato che il lavoratore part time che rifiuti di fare il tempo pieno (o viceversa) è licenziabile, a condizione che il datore di lavoro si trovi innanzi ad una situazione economica tale da rendere opportuna una revisione dell’organizzazione del personale.
Vediamo più da vicino questi argomenti, di sicuro interesse per tutti i lavoratori subordinati. I dettagli.
Rifiuto del tempo pieno e licenziamento: il caso giudiziario
La vicenda, su cui si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza suddetta del 23 ottobre scorso, trae origine dall’impugnazione del licenziamento – inflitto con cancellazione della posizione lavorativa – effettuata da una dipendente contro la Srl presso cui era sotto contratto per un part time da 20 ore settimanali.
La donna evidenziava che la vera ragione su cui si fondava il recesso datoriale, era da rintracciarsi in una ritorsione dell’azienda al suo no alla proposta di trasformare il rapporto da part-time a full-time da 36 o 40 ore settimanali – tenuto conto anche che, poco prima del licenziamento, era stato assunto un dipendente con le stesse mansioni.
Più nel dettaglio, l’impugnazione del licenziamento era basata sulla contestazione secondo cui l’aumento del carico di lavoro di contabilità per l’estensione del numero dei clienti, non giustificava l’eliminazione del posto di lavoro della donna e l’assunzione di un’altra figura con contratto full time.
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La decisione in Appello
Ebbene, nel corso delle dinamiche giudiziarie, se in primo grado il tribunale diede ragione all’azienda, in Appello la sentenza fu opposta. Infatti in secondo grado prevalse la linea dell’accoglimento del ricorso della lavoratrice, affermando la pretestuosità della motivazione del datore di lavoro e, perciò, l’illegittimità del licenziamento inflitto per il no alla trasformazione del rapporto da part time e full time.
Conseguentemente, la Corte d’Appello disponeva il reintegro della dipendente come anche l’indennizzo, stabilito sul suo ultimo stipendio dalla data del licenziamento fino al suo effettivo ritorno in azienda – oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
Passaggio da part-time a tempo pieno: il lavoratore non può essere obbligato per la Cassazione
Con il ricorso in Cassazione, la situazione per la dipendente è cambiata. Infatti la Corte ha di fatto ribaltato gli esiti del giudizio di Appello, rilevando anzitutto che l’art. 8, comma 1, del D.Lgs. 81/2015 – il cd. Jobs Act – prevede che il rifiuto del dipendente di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a part-time – o viceversa – non basta a costituire motivo di licenziamento.
Ma attenzione all’eccezione alla regola generale. Infatti la Cassazione ha anche rimarcato che il principio citato non si applica laddove l’azienda sia in grado di provare:
- le concrete esigenze economiche ed organizzative tali da non permettere il mantenimento della prestazione a tempo parziale, ma soltanto con l’orario diverso (full time);
- l’avvenuta offerta al lavoratore / lavoratrice della trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno, con il rifiuto di quest’ultimo/a;
- la presenza di un nesso causale tra le esigenze di variazione dell’orario di lavoro in azienda ed il licenziamento.
Secondo la sentenza della Cassazione, ai fini del recesso, è necessaria non solo la dimostrazione della effettività dei motivi alla base del cambiamento dell’orario – ovvero la situazione economica aziendale che giustifica la revisione dell’organizzazione del personale – ma anche quella dell’impossibilità di servirsi della prestazione della persona assunta con modalità orarie diverse. In queste circostanze, sarebbe legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo in quanto il cambio delle ore lavorate è a sola soluzione percorribile dall’azienda.
Ebbene, la Cassazione – alla luce di quanto emerso nel corso del procedimento – nella sentenza dello scorso 23 ottobre ha affermato che la prova datoriale è stata fornita, con la conseguenza dell’accoglimento del ricorso effettuato dalla società e la dichiarazione di legittimità del licenziamento della donna. Inoltre i giudici di legittimità hanno stabilito che il carattere ritorsivo del licenziamento non è stato dimostrato dalla donna.
Cosa succede ora?
Concludendo, il provvedimento della Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’azienda, ribaltando la sentenza in Appello e disponendo il rinvio ad altro magistrato che, a questo punto, dovrà verificare la correttezza del recesso datoriale, sulla scorta dei rilievi della Suprema Corte sulla sentenza annullata.
Ma, soprattutto, dovrà applicare i principi indicati dai giudici di legittimità.