Una pronuncia di sicuro rilievo è la recentissima sentenza n. 148 della Corte Costituzionale. Essa di fatto incide sul contesto dei rapporti di lavoro, ampliando in qualche modo il concetto di ‘impresa familiare’ di cui al Codice Civile.
Infatti – a seguito della dichiarazione di incostituzionalità di due articoli del Codice Civile – chi ha lo status di convivente di fatto è anch’esso da considerarsi ‘familiare’ ed è impresa familiare quella con la quale si trova a collaborare.
Vediamo più da vicino questo provvedimento della Consulta e i fatti che hanno portato alla pronuncia
Le questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione
Con ordinanza di quest’anno la Corte di Cassazione, sezioni unite civili, aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale, in rapporto agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione, all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) delle seguenti norme:
- art. 230-bis (Impresa familiare), primo e terzo comma, del Codice Civile, nella parte in cui non comprende nell’insieme dei familiari anche il convivente di fatto o more uxorio;
- in via derivata l’art. 230-ter (Diritti del convivente) del Codice Civile, il quale applicherebbe al convivente di fatto, che svolga stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente, una tutela minore rispetto a quella disposta per il familiare.
In riferimento a quest’ultimo articolo ricordiamo che era stato introdotto dall’art.1, comma 46, legge 20 maggio 2016, n. 76 – la cd. legge Cirinnà.
Impresa familiare e status di familiare al convivente di fatto: la vicenda in breve
Ebbene, le questioni di legittimità costituzionale erano stato sollevate nel corso di una causa introdotta da una donna nei confronti dei figli e coeredi di un uomo, già coniugato con altra persona, di cui esponeva di essere stata stabile convivente dal 2000 fino alla morte datata novembre 2012. In tribunale la donna chiedeva in particolare l’accertamento dell’esistenza di una impresa familiare, relativa ad una azienda agricola, e la condanna alla liquidazione della quota spettante come partecipante all’impresa.
Nella sentenza della Corte Costituzionale n. 148 si legge altresì che:
La ricorrente aveva dedotto che la convivenza, iniziata in altra località, era proseguita presso il fondo rustico acquistato dal defunto […] e di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo nell’azienda del convivente dal 2004 (anno di iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012.
In primo grado, il tribunale aveva rigettato la richiesta della donna rilevando che il convivente di fatto non poteva essere considerato ‘familiare’ in base all’art. 230-bis, terzo comma, del Codice Civile. La Corte d’appello chiamata a pronunciarsi sulla vicenda aveva in seguito confermato il rigetto sullo stesso presupposto, escludendo, altresì, l’applicabilità dell’art. 230-ter del Codice Civile.
Si è giunti così al ricorso in Cassazione della donna e, di seguito, al suddetto giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 230-bis, commi primo e terzo, e – ‘in via derivata’ – 230-ter del codice civile, promosso dalla stessa Corte, sezioni unite civili.
La decisione della Consulta
Con un pronuncia sostanzialmente favorevole alla donna che aveva fatto ricorso in Cassazione, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale:
- dell’articolo 230 bis, terzo comma, del Codice Civile, nella parte in cui non prevede come familiare – oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo – altresì il ‘convivente di fatto’ e come impresa familiare quella con la quale collabora anche lo stesso ‘convivente di fatto’;
- in via consequenziale, dell’art. 230-ter del Codice Civile, che, introdotto dalla legge n. 76 del 2016 (cd. legge Cirinnà), assegnava al convivente di fatto una minor tutela.
Nella sentenza n. 148 della Corte Costituzionale si ricorda peraltro la definizione legislativa dei ‘conviventi di fatto’, ossia di coloro che – secondo la definizione prevista dall’art. 1, comma 36, della legge Cirinnà – sono persone:
maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da un’unione civile.
La Consulta ha accolto le questioni sollevate rimarcando che, in una società profondamente mutata rispetto al passato, si registra una convergente evoluzione sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto:
piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.
Convivenza di fatto e piena tutela del diritto al lavoro
E se vero che il modello di cui alla scelta del Costituente è rappresentato tuttora dalla famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.) e che permangono, perciò, differenze di disciplina, è però altrettanto vero – rimarca la Corte nella sentenza – che quando si tratta di diritti fondamentali:
esse sono recessive e la tutela non può che essere la stessa sia che si tratti, ad esempio, del diritto all’abitazione (sentenza n. 404 del 1988), o della protezione di soggetti disabili (sentenza n. 213 del 2016), o dell’affettività di persone detenute (sentenza n. 10 del 2024).
Al contempo è fondamentale è il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), che, quando reso nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale protezione – rimarca la Corte Costituzionale. Ed infatti, come dispone l’art. 230 bis Codice Civile:
il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Tale protezione è obbligatoria perché, come ricorda anche il comunicato emesso dall’Ufficio Stampa della Corte, il convivente di fatto si trova come il coniuge, nella stessa situazione in cui la prestazione di lavoro deve essere protetta – rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito.
Ecco perché la Consulta – nel sottolineare che la tutela del lavoro è strumento di realizzazione della dignità di ogni persona – diritto anch’esso tutelato in Costituzione, sia come singolo che quale membro della comunità a partire da quella familiare, ha ritenuto irragionevole e incostituzionale la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare.
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