Affinché una contestazione disciplinare da parte del datore di lavoro sia valida, è necessario che la stessa sia resa nei confronti del lavoratore in modo specifico e chiaro. Lo scopo della contestazione infatti deve necessariamente essere quella di mettere il lavoratore incolpato nelle condizioni di potersi difendere.
Non è necessario, a tal fine, che il datore di lavoro segua schemi prestabiliti o standardizzati, è possibile infatti utilizzare qualsiasi format purché sia in grado in maniera inequivocabile che di individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 13667/2018, con la quale ribadisce e consolida l’orientamento già espresso in passato in merito alla procedura da seguire quando un’azienda intende effettuare un licenziamento disciplinare, e quindi applicare l’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970).
Contestazione disciplinare, cos’è
Ma che cos’è nello specifico una contestazione disciplinare? Ebbene, quando un lavoratore mette in atto sul luogo di lavoro dei comportamenti scorretti, l’azienda può sanzionare lo stesso mediante un addebito. Questo prende appunto il nome nel caso di specie di contestazione disciplinare per comportamento scorretto.
Tale pratica deve necessariamente essere preventiva rispetto a qualsiasi atto di licenziamento, pena l’illegittimità e soprattutto il datore di lavoro deve assicurarsi che il lavoratore possa difendersi dei fatti contestati; non è quindi valido per esempio una contestazione dalla quale non si è in grado di individuare il fatto materiale addotto a fondamento della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo.
Si ricorda, inoltre, che prima di comminare qualsiasi sanzione è necessario che siano passati almeno 5 giorni dal ricevimento della contestazione, per sentire la difesa del lavoratore. Quest’ultimo può farsi rappresentare e/o assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un legale di sua fiducia.
Licenziamento disciplinare illegittimo: il caso
La vicenda trae origine da un’azienda che aveva licenziato un lavoratore dipendente dopo avergli contestato alcuni comportamenti che avevano leso il vincolo fiduciario tra le parti.
Il lavoratore soccombe nel primo grado di giudizio e ricorre alla Corte d’Appello che gli riconosce l’illegittimità del licenziamento; per i giudici di secondo grado era infatti stato violato l’art. 18 del CCNL applicato al lavoratore, che richiamava interamente la disciplina del potere disciplinare e quindi dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
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L’azienda impugna la sentenza e ricorre per Cassazione con quattro motivi che sono stati poi respinti dai massimi giudici.
Nullità contestazione disciplinare senza addebito
Gli ermellini, nel respingere il ricorso proposto dalla società, affermano il già consolidato orientamento giurisprudenziale; l’addebito disciplinare deve contenere in modo chiaro espressioni che facciano comprendere al lavoratore quali siano le intenzioni della parte datoriale. Come detto in premessa questo serve a consentire al presunto colpevole di potersi difendere.
Nel caso di specie, infatti, non era stato rilevato nella maniera più assoluta alcun indizio che potesse far presagire l’effettiva sussistenza di addebiti; nella lettera, infatti, non era stato citato nessun aspetto disciplinare o addebiti specifici. Per questo motivo laddove la contestazione non riveste il carattere della specificità, la stessa può considerarsi non valida.
È possibile utilizzare qualsiasi forma per l’addebito, purché sia efficace a consentire al lavoratore di individuare in maniera netta i fatti contestati; in modo tale da dargli la possibilità di fornire una risposta con le giustificazioni al suo comportamento scorretto.