La Corte Costituzionale, con sentenza nr. 303 dello scorso 9 novembre 2011, ha dichiarato la legittimità costituzionale dell’articolo 32, commi 5, 6 e 7, del c.d. Collegato Lavoro, relativamente ai limiti di indennizzo (fra 2,5 e 12 mensilità) che il datore di lavoro deve pagare al lavoratore che ottenga dal giudice la conversione a tempo indeterminato di un precedente contratto a termine.
Il giudizio di legittimità costituzionale dell’art 32 commi 5, 6 e 7, era stato sollevato dalla Cassazione e dal Tribunale di Trani, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 della Costituzione; quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo comma, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
- Il comma 5, prevede che nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro a risarcire il lavoratore in ragione di un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
- il comma 6, che, in presenza di contratti collettivi di qualsiasi livello, purché stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, i quali contemplino l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’àmbito di specifiche graduatorie, il limite massimo della suddetta indennità è ridotto
alla metà; - il comma 7, che tali previsioni trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della predetta legge.
L’art 32 del collegato lavoro è sospettata d’illegittimità, perché ritenuta irragionevolmente riduttiva del risarcimento del danno integrale già conseguibile dal lavoratore sotto il regime previgente, sino a monetizzare, persino il diritto indisponibile alla regolarizzazione contributiva.
“In tal modo, sarebbero lesi gli artt. 3, 4, 24, 101, 102 e 111 Cost., poiché la liquidazione del danno, eventualmente sproporzionata per difetto rispetto all’ammontare realmente sofferto dal lavoratore, indurrebbe il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento tentando di prolungare il giudizio o addirittura sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna, non suscettibile di realizzazione in forma specifica. Con ciò la normativa in questione vanificherebbe il diritto del cittadino al lavoro e minerebbe l’effettività della tutela giurisdizionale, in tesi frustrata dalla conseguente irrilevanza del tempo occorrente all’accertamento giudiziale dell’illegittimità del termine, altresì con effetti discriminatori nei confronti di una serie di lavoratori versanti in situazioni comparabili, sino a compromettere le funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario”.
Secondo la Corte Costituzionale, “in termini generali, l’art 32 non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Difatti, l’indennità prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010 va chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata della novella, però, induce a ritenere che il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto e non, come afferma l Cassazione l’intero pregiudizio subìto dal lavoratore a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, dal giorno dell’interruzione del rapporto fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio
A partire dalla sentenza con cui il giudice, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva.
In definitiva, continua la Consulta, “la normativa impugnata risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die”.
In riferimento alla riduzione della metà del limite superiore dell’indennità ai sensi dell’art. 32, comma 6, la ragionevolezza della previsione trae alimento dal favor del legislatore per i percorsi di assorbimento del personale precario disciplinati dall’autonomia collettiva.
Inoltre, prosegue la Corte, ”la garanzia economica in questione non è né rigida, né uniforme. Piuttosto, la normativa in esame, anche attraverso il ricorso ai criteri indicati dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, consente di calibrare l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonché le stesse dimensioni dell’impresa”.
Per questi motivi la corte dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183 Collegato lavoro, sollevate, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di Trani.