La Cassazione, con la sentenza n. 19782 dello scorso 19 settembre, torna a pronunciarsi sull’annosa questione del mobbing e al connesso diritto del lavoratore al risarcimento morale, biologico ed assistenziale.
Con questa pronuncia gli Ermellini, confermano l’orientamento giurisprudenziale avanzato dalla Corte Costituzionale e, recepito dalla stessa giurisprudenza della Cassazione, circa i presupposti per la configurabilità del mobbing e, circa l’onere della prova che incombe sul lavoratore.
Nella specie, un lavoratore ricorreva in giudizio avverso la società datrice di lavoro e, chiedeva l’accertamento della sussistenza della condotta persecutoria tenuta dal datore di lavoro nei propri confronti e del nesso causale tra tale condotta e le patologie contratte, nonche’ la condanna al risarcimento del danno (biologico, morale, esistenziale) subito dal ricorrente, pari a complessivi euro 105.000,00.
Il Tribunale di primo grado e la Corte d’Appello, rigettavano tale domanda, escludendo che nella fattispecie “si potesse configurare il c.d. terrorismo psicologico e, comunque, l’elemento dequalificante e discriminatorio dell’asserito mobbing, difettando l’esistenza degli elementi strutturali sia sotto il profilo oggettivo, costituito dalla frequenza e ripetitivita’ nel tempo dei comportamenti del datore comportanti abusi nei confronti del lavoratore, sia sotto il profilo soggettivo, rappresentato dalla coscienza ed intenzione del primo di causare danni”.
Il lavoratore ricorreva dunque in Cassazione. La Suprema Corte, nel richiamare giurisprudenza consolidata in materia (da ultimo, Cass., n. 18927 del 2012), afferma che “nella disciplina del rapporto di lavoro…, il datore di lavoro non solo è contrattualmente obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l’integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente (ai sensi dell’articolo 2087 c.c.), ma deve altresì rispettare il generale obbligo di neminem laedere e non deve tenere comportamenti che possano cagionare danni di natura non patrimoniale, configurabili ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i suddetti diritti”.
Alla base della responsabilita’ per mobbing lavorativo si pone dunque l’articolo 2087 cod. civ., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrita’ psico-fisica e la personalita’ morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignita’ e i diritti fondamentali, di cui agli articoli 2, 3 e 32 Cost..
Fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate rientra il mobbing che, designa
un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui e’ inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.
Per aversi mobbing devono dunque sussistere:
- una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
- l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
- il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
- il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (vedi: Cass. 21 maggio 2011 n. 12048; Cass. 26 marzo 2010 n. 7382).
E’ onere del lavoratore provare l’esistenza degli elementi caratterizzanti la condotta di mobbing mentre, è onere del datore provare l’adozione di tutte le cautele impostegli dall’art. 2087 c.c. a tutela della salute e integrità psico fisica del lavoratore.
Onere della prova che nel caso di specie non è avvenuto da parte del lavoratore. E ciò perchè, a detta del Giudice di secondo grado, “i fatti dedotti dall’appellante non sarebbero stati di per se’ soli sufficienti a configurare al sussistenza di una condotta mobbizzante da parte del datore di lavoro, dovendosi provare l’esistenza di comportamenti, protratti nel tempo, che rivelassero, in modo univoco, un’esplicita volonta’ di quest’ultimo di emarginazione del primo”.