La Cassazione, con sentenza nr. 18603 dello scorso 24 aprile 2013, ha affermato l’ammissibilità del sequestro di una azienda allorquando questa, nello svolgimento della propria attività lavorativa utilizzi prevalentemente prestatori clandestini privi del permesso di soggiorno.
La Cassazione è stata investita del giudizio dal Procuratore generale di firenze, avverso una ordinanza, con la quale il tribunale di Firenze ha annullato il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Firenze in data 10.9.2012, con cui il GIP disponeva il sequestro preventivo di alcune società tutte riferibili ad un imprenditore accusato del reato di lesioni personali colpose commesso in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ai danni di un lavoratore.
Il procuratore riteneva inammissibile l’annullamento del sequestro di azienda ritendendo invece, che la stessa potesse essere sequestrata in quanto costituiva il “mezzo attraverso il quale l’indagato ha commesso il reato allo stesso contestato, atteso che al C. è stata propriamente ascritta la realizzazione di un’organizzazione imprenditoriale del tutto priva di qualsivoglia forma di cautela o di misura precauzionale funzionale alla sicurezza e all’incolumità dei lavoratori impiegati”
La Suprema Corte, dopo aver evidenziato come la giurisprudenza di legittimità, in tema di sequestro preventivo di aziende, abbia conosciuto alterne vicende con riguardo al tema della sequestrabilità delle aziende strutturate per lo svolgimento di attività lavorativa con prevalente impiego di lavoratori privi di permesso di soggiorno, ha ribadito che, “in materia di sequestro preventivo, oggetto della misura cautelare reale può essere anche un’intera azienda, ove sussistano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali, proprio per la sua collocazione strumentale, sia utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando la circostanza che l’azienda svolga anche normali attività imprenditoriali”.
Gli Ermellini, richiamano infine, il principio sancito da Cass., Sez. 5, n. 8152/2010, nella parte in cui ammonisce come i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, dettati dall’art. 275 cp.p. per le misure cautelari personali, devono ritenersi applicabili anche alle misure cautelari reali e devono costituire oggetto di valutazione preventiva e non eludibile da parte del giudice nell’applicazione delle cautele reali, al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata.
Ne consegue che, qualora detta misura trovi applicazione, il giudice deve motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato della misura cautelare reale con una meno invasiva misura interdittiva”.
Pertanto, la Suprema Corte, riconosce l’invalidità del provvedimento impugnato per violazione legge, con la conseguente pronuncia del relativo annullamento e, rinvia al Tribunale di Firenze per un nuovo esame.