La Cassazione, con sentenza nr. 19760 dello scorso 8 maggio, intervenendo in tema di maltrattamenti sul lavoro, ha affermato che non si configura il reato di maltrattamento per atti vessatori sul luogo di lavoro, a danno di un dipendente, nel caso di una impresa di notevoli dimensioni.
Per configurarsi tale reato, continua la Corte, è necessario che il rapporto di subordinazione tra dipendente e dirigenti sia ricollegabile al rapporto cd “para-famigliare” che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità dell’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita anche lavorativa, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.
Il caso è arrivato alla Suprema Corte a seguito di ricorso del dipendente contro le sentenze dia assoluzione al dirigente, accusato di maltrattamento consistite, tra l’altro, “nell’ingiustificata estromissione da un gruppo di lavoro, nel provocare senso di mortificazione e stress emotivo con atteggiamenti astiosi e nell’adibire il dipendente a mansioni non adeguati a titoli e competenze”.
Gli Ermellini, richiamando una precedente sentenza in tema (la nr. 2571/12) hanno ribadito che “è vero che l’art. 572 c.p. ha ‘allargato’ l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamento anche oltre quello solo endofamiliare in senso stretto. Ma pur sempre la fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti della famiglia ed indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli sicché non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di generico, e generale, rapporto di subordinazione/sovraordinazione”.
Da qui la ragione dell’indicazione del requisito, del presupposto, della parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto dl prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità”.
Se così non fosse, continuano gli Ermellini, “ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro per ciò solo dovrebbe configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione in termini di violazione dell’art. 572 cp di condotte che, di eguale contenuto ma poste in essere in contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile (il cd mobbing in contesto lavorativo), con evidente irragionevolezza del sistema”.
Per questi motivi, nel caso di specie, non si ritengono sussistenti gli elementi per la configurazione per un rapporto parafamiliare, in quanto “le relazioni interne ad una sede locale di una grande azienda, non possono essere ricondotte al rapporto tra un datore di lavoro che agisca con ampia discrezionalità ed informalità ed un dipendente cha ad esso si affida fiducioso”.
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