La Corte di Cassazione, con sentenza n. 25824 dello scorso 18 novembre 2013 ha dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore per assenza ingiustificata alla ripresa dell’attività lavorativa, pur se quest’ultimo asserisce di non aver mai ricevuto la comunicazione con l’invito a riprendere servizio, spedita dal datore.
Nel caso di specie, un lavoratore aveva chiesto al Giudice del lavoro di accertare l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro e, la conseguente riammissione in servizio a tempo indeterminato. Il Tribunale del lavoro aveva accolto tale richiesta. La società datrice, in ottemperanza alla sentenza, inviava RAR con la comunicazione dei tempi di ripresa in servizio.
Tale comunicazione veniva fatta all’indirizzo che il lavoratore ricorrente aveva indicato come propria residenza nel ricorso più datato (ossia nel ricorso teso ad accertare l’illegittimità dell’apposizione del termine al contratto); ignorando che, nel frattempo il lavoratore aveva di fatto, cambiato residenza.
Il dipendente pertanto, non si presentava in servizio è la società, a seguito di tale assenza ingiustificata, comunicava, sempre allo stesso indirizzo, la lettera di contestazione dell’addebito di assenza ingiustificata al lavoro. Per tutte le comunicazione fatte dal datore di lavoro, si era realizzata la giacenza postale.
Il lavoratore ricorreva di nuovo in giudizio, adducendo il fatto che il datore conosceva tutti i recapiti del lavoratore e, non rispondeva a realtà che esso ricorrente non avesse comunicato variazioni dell’indirizzo originario.
Gli Ermellini, enunciando giurisprudenza consolidata, affermano che “qualora la comunicazione del provvedimento di licenziamento venga effettuata al dipendente mediante lettera raccomandata spedita al suo domicilio, essa, a norma dell’art. 1335 c.c., si presume conosciuta dal momento in cui giunge al domicilio del destinatario, ovvero, nel caso in cui la lettera raccomandata non sia stata consegnata per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, dal momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l’ufficio postale (v. Cass. 15.12.2009 n. 26241, Cass., 24.4.2003 n. 6527)”
Nella specie, continua la sentenza, “risulta che la comunicazione presso l’indirizzo di Via (…) è stata restituita al mittente per compiuta giacenza il 25.8.2005 ed anche l’ulteriore missiva di contestazione degli addebiti era restituita al mittente il 23.10.2005 sempre per compiuta giacenza, si che la valutazione del giudice di merito circa la sufficienza di tale attestazione, anche in considerazione della mancanza di contrari elementi di prova forniti dalla controparte, si rivela del tutto corretta e si sottrae perciò alle censure della ricorrente”
La operatività del principio di presunzione di conoscenza dell’atto all’indirizzo del destinatario si realizza quando il plico sia effettivamente pervenuto a destinazione, per il solo fatto oggettivo dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione, ma non quando l’agente postale, ancorché errando, l’abbia rispedito al mittente, dichiarando essere il destinatario sconosciuto ( v. Cass. 8.6.2012 n. 9303 ed anche Cass. 26.4.1999, n. 4140).
Tale presunzione può essere superata solo mediante la prova, da parte del destinatario, di essere stato, senza colpa, nell’impossibilità di avere avuto notizia dell’atto.
La prova richiesta dalla legge, proseguono gli Ermellini, “deve necessariamente avere ad oggetto un fatto o una situazione che spezza o interrompe in modo duraturo il collegamento esistente tra il destinatario ed il luogo di destinazione della comunicazione e deve, altresi, dimostrare che tale situazione è incolpevole, non poteva cioè essere superata dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza (cfr, Cass. 6.11.2011 n.20482).”. Prova che evidentemente, non è stata fornita dal lavoratore.
Circa l’esistenza di una giusta causa di licenziamento come prevista dall’art. 2119 c.c. la Suprema Corte afferma che: “per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario e la cui prova incombe sul datore di lavoro, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare”.
Principio questo del tutto rispettato dalla corte d’appello che, “la condotta del lavoratore., connotata da un’assenza protrattasi per più di dieci giorni, anche sotto il profilo dell’elemento intenzionale ha integrato un comportamento idoneo alla ravvisabilità della giusta causa del recesso, sia perché le eventuali convinzioni personali del ricorrente sono, per quanto già detto, del tutto irrilevanti a fronte del dato oggettivo della mancata presentazione al lavoro a seguito di regolare invio della raccomandata presso il luogo dove secondo legge la stessa doveva essere recapitata, sia perché ogni conseguenza negativa è imputabile unicamente al predetto, che avrebbe dovuto predisporre, secondo un principio di buona fede e di ordinaria diligenza, meccanismi idonei a rendere a lui conoscibile ogni comunicazione datoriale”.