La corte di Cassazione, con sentenza nr. 33330 dello scorso 8 settembre, ha ribadito il principio per cui, costituisce truffa e non evasione contributiva, la falsa dichiarazione di un imprenditore circa i versamenti effettuati per indennità di maternità, al fine di trarne profitto.
Il caso ha riguardato un presidente di una società cooperativa sarda che, aveva presentato all’INPS, tramite i modelli DM 10, la richiesta di conguaglio di circa 6mila euro, a titolo di indennità di maternità relative al periodo maggio – dicembre 2002; somme che in pratica, non venivano affatto corrisposte alla lavoratrice dipendente.
La Suprema Corte, nel ribadire quanto già espresso in precedenti sentenze, ha affermato che: “Integra il delitto di truffa, e non il meno grave reato di cui all’art. 37 L. n. 689 del 1981, il datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme come corrisposte al lavoratore, induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto e non già una semplice evasione contributiva”.
Secondo gli Ermellini, “la falsa dichiarazione circa la corresponsione dell’indennità di maternità non era finalizzata all’omesso versamento degli importi, ma al conseguimento dell’ingiusto profitto rappresentato dalle somme indicate falsamente come corrisposte, di cui viene sollecitato il conguaglio”.
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