La Corte di Cassazione con sentenza nr. 2352 dello scorso 2 febbraio 2010, ha stabilito che del danno da demansionamento cagionato ad un sottoposto da un comportamento del superiore gerarchico, risponde direttamente e personalmente il superiore stesso e non l’azienda.
Il fatto ha riguardato un medico chirurgo, aiuto anziano di ruolo presso la divisione di chirurgia cardiotoracica pediatrica di un ospedale che, per volontà del primario, suo superiore gerarchico è stato escluso, per cinque anni, da ogni attività di sala operatoria o di gestione di reparti.
L’aiuto primario chiedeva quindi il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali causati dall’ingiusto trattamento, sostenendo tra l’altro che, il demansionamento subito aveva avuto ripercussioni negative anche sull’attività professionale svolta privatamente. Il Tribunale di primo grado condannava il primario al risarcimento dei danni patrimoniali pari a 350 milioni di lire; tale sentenza però, non veniva confermata in appello. Infatti la Corte d’appello riteneva che del danno dovesse rispondere la struttura ospedaliera datore di lavoro e non personalmente il primario, in base all’art. 2103 cod. civ.(mansioni del lavoratore).
Si proponeva quindi ricorso in Cassazione chiedendo che venisse accertata la responsabilità (e quindi il risarcimento), in base alla normativa generale recata dagli articoli 2043 (risarcimento per fatto illecito) e 2059 (risarcimento danno non patrimoniale) cod. civ.
La Cassazione, rifacendosi ad un orientamento giurisprudenziale consolidato, ha affermato che “ In una fattispecie di rapporto gerarchico professionale, quale è quello che ricorre tra il primario di un reparto ospedaliero di chirurgia pediatrica e l’aiuto anziano già operante nel reparto, costituisce fatto colposo che configura illecito civile continuato ed aggravato dal persistere della volontà punitiva e di atti diretti all’emarginazione del professionista, la condotta del primario che nell’esercizio formale dei poteri di controllo e di vigilanza del reparto, estrometta di fatto l’aiuto anziano da ogni attività proficua di collaborazione, impedendogli l’esercizio delle mansioni cui era addetto”.
Gli Ermellini continuano affermando che “Tale condotta è imputabile al primario, come soggetto agente, ed esprime l’elemento soggettivo della colpa in senso lato, essendo intenzionalmente preordinata alla distruzione della dignità personale e dell’immagine professionale e delle stesse possibilità di lavoro in ambito professionale, con lesione immediata e diretta dei diritti inviolabili del lavoratore professionista (già riconosciute in altre sentenze) e tutelate anche dagli articoli 1, 3 secondo comma, 4 e 35 primo comma della Costituzione, dovendosi considerare, per il presidio di tutela il lavoratore professionista alla stessa stregua di qualsiasi altro lavoratore e senza discriminazioni”.
“Il danno ingiusto, cagionato direttamente dal primario, con i provvedimenti impeditivi dell’esercizio della normale attività, implica un demansionamento continuato di fatto (malgrado le pronunce amministrative di reintegrazione) e si pone in relazione causale con il fattore determinante della condotta umana lesiva, posta in essere dal primario”.
Pertanto conclude la corte, “così stabilita ed accertata, in tutti i suoi elementi, soggettivi ed oggettivi, la fattispecie da sussumere sotto la norma primaria che regola il fatto illecito (art. 2043 cod. civ.) il giudice del rinvio dovrà procedere alla congrua liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali consequenziali, rispettando il principio del risarcimento integrale. Quanto al ristoro dei danni patrimoniali, dovrà essere considerato il regime professionale vigente all’epoca dei fatti, e comunque la perdita delle chances economiche e di clientela in relazione alla distruzione dell’immagine nella comunità scientifica e nel mercato libero delle prestazioni professionali per la perdita di affidabilità scientifica e curativa”.
Fonte: www.leggeegiustizia.it