La Cassazione, con sentenza nr. 5240 dello scorso 2 aprile 2012, ha affermato che nei contratti a tempo determinato, l’apposizione illegittima della clausola a termine determina una nullità assoluta del contratto stesso che quindi, può essere impugnata dal lavoratore in qualsiasi momento se il datore di lavoro non prova che la risoluzione sia stata consensuale.
Il caso ha riguardato un lavoratore di Poste Italiane assunto con contratto a tempo determinato, per esigenze eccezionali, dal 2 settembre 1999 al 30 ottobre 1999, che chiedeva dichiararsi la nullità della clausola a termine apposta e, di conseguenza, la conversione del contratto a tempo indeterminato.
Sia il Tribunale di primo grado che quello di appello, rigettavano la domanda poichè ritenevano risolto il rapporto di lavoro per mutuo consenso, per intervenuta acquiescenza del lavoratore alla cessazione del rapporto, stante l’eccessivo lasso di tempo intercorso tra la scadenza del contratto (30 ottobre 1999) e la proposizione della domanda giudiziale (21 giugno 2006), nonchè tenuto conto dell’esigua durata del rapporto, la mancata messa a disposizione del lavoratore in favore della società e la sua accettazione del t.f.r. liquidato.
La Cassazione ha invece accolto il ricorso del lavoratore affermando che, come da orientamento giurisprudenziale consolidato, “è configurabile la risoluzione del rapporto per mutuo consenso, ove sia accertata una chiara, certa e comune volontà di porre fine ad ogni rapporto lavorativo. Tale valutazione spetta al giudice di merito.
Inoltre, prosegue la Corte, la semplice inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, non è sufficiente a far ritenere la sussistenza della risoluzione del rapporto per mutuo consenso e che, non sono indicative della volontà di rinunciare ai “diritti derivanti dall’illegittima apposizione del termine”, neppure la ancata offerta della prestazione lavorativa e l’accettazione del t.f.r.
Lo stesso dicasi della condotta di “chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque a cercare una occupazione, dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni”.
Gli ermellini affermano infine che l’onere della prova della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, grava sul datore di lavoro, se eccepita da quest’ultimo; che dovrà dunque, provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di porre definitivamente fine ad ogni apporto di lavoro.
Pertanto, se non si provano l’esistenza di circostanze oggettive, oltre il decorrere del tempo, incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro, lo stesso non può considerarsi concluso.