Ennesima pronuncia della Suprema Corte sulla validità dei contratti a tempo determinato stipulati da Poste Italiane. La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza nr. 6328 del 16 marzo 2010, ha stabilito che la stipulazione di un contratto a tempo determinato non può essere ricondotta a strumento comune di assunzione al lavoro. Tale divieto è evidenziato già nella legge regolatrice di tale contratto (D.lgs 368/2001) che richiede, in sede di formulazione in forma scritta del relativo contratto, la puntuale specificazione della concreta esigenza che giustifica l’apposizione del termine.
Il fatto ha riguardato una lavoratrice assunta dalle Poste Italiane con contratto a tempo determinato per “esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione… congiuntamente alla necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie contrattualmente dovute a tutto il personale nel periodo estivo“.
La lavoratrice chiedeva al Tribunale di Milano di dichiarare la nullità del termine apposto al contratto e la conseguente instaurazione di lavoro a tempo indeterminato. La domanda veniva accolta dal tribunale di prime cure in quanto riteneva la causale indicata nel contratto generica, ravvisando una violazione della disciplina recata dal D.Lgs. n. 368 del 2001. Decisione che veniva confermata, in grado di appello. Le poste proponevano ricorso per cassazione.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso osservando che :”La nuova disciplina del contratto a termine dettata dal D.Lgs. n. 368/2001 in esecuzione della delega contenuta nella legge comunitaria n. 422 del 2000, ha sostituito il pregresso sistema della predeterminazione di ipotesi tassative in cui è consentita per legge (legge 230/62 e successive integrazioni) o su delega di questa (art. 23 della legge n. 56/87) alla contrattazione collettiva l’apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro subordinato con la previsione di una clausola generale legittimante tale apposizione.
“Tale nuova disciplina persegue lo scopo di riposizionare l’equilibrio del sistema, nel contemperamento degli interessi economici e sociali in possibile contrasto nella materia del contratto a tempo determinato, tenendo peraltro fermo il principio, relativo alla centralità del contratto di lavoro a tempo indeterminato; da qui la non riconducibilità del contratto a termine a strumento comune di assunzione al lavoro, che si esprime nella legge nel richiedere, già in sede di formulazione in forma scritta del relativo contratto, la puntuale specificazione della concreta esigenza che giustifica l’apposizione del termine, riconducibile tra quelle riassunte nella formulazione della clausola generale enunciata al comma 1° del citato articolo di legge”.
In pratica, nel contratto a tempo determinato, le ragioni giustificatrici, devono essere sufficientemente particolareggiate, in maniera da rendere possibile la conoscenza dell’effettiva portata delle stesse e quindi il relativo controllo di effettività.
Per quanto concerne la conseguenza della dichiarazione di nullità del termine, la Corte ha confermato i suoi precedenti secondo cui “pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza di dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale nonché in base all’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato tracciato dalla Corte Cost. n. 210 del 1992 e 283 del 2005, all’illegittimità del termine e alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’istaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato“.
Fonte: www.leggeegiustizia.it
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