La Corte di Cassazione, con sentenza nr. 243 dello scorso 7 gennaio, ha stabilito che è reato, dire al proprio capo “lei non capisce un c…”.
Il lavoratore, come spesso succede, aveva proferito tale frase, durante un diverbio con il proprio capo; frase che è stata evidentemente mal digerita dal datore di lavoro che, pertanto, lo ha portato in giudizio.
Il Tribunale di primo grado, assolveva il lavoratore dal reato ascrittogli, ritenendo che una frase del genere, non contiene elementi offensivi in quanto, l’espressione utilizzata dal lavoratore è ormai “entrata nel gergo comune” e, comunque, la frase (pronunciata nel corso di una discussione), aveva il solo scopo di “comunicare in modo efficace” il dissenso del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.
Non dello stesso avviso è stata la Corte di Cassazione (investita del ricorso da parte della Procura) che, ribaltando la sentenza di primo grado, ha invece affermato che l’espressione “lei non capisce un c….” costituisce ingiuria.
Secondo gli Ermellini, infatti, a prescindere o meno dal fatto che un tale gergo sia divenuto di espressione comune, “è invero l’espressione stessa, letta complessivamente e nel contesto in cui veniva pronunciata, ad assumere carattere ingiurioso laddove vi veniva rimarcata con particolare asprezza di tono, e nel corso di una discussione di lavoro, l’incompetenza della persona offesa nella materia oggetto di discussione”.
In pratica, l’atteggiamento del lavoratore “esorbitava dalla mera manifestazione di un contrasto di opinioni fra l’imputato e la parte offesa, presentandosi viceversa quale offesa all’onore professionale di quest’ultima in quanto tale”.
Per questi motivi, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza emessa dal Giudice di Pace che, dunque, dovrà riesaminare la questione tenendo conto proprio dei principi enunciati sul caso dalla Cassazione.