La Cassazione, con sentenza nr. 9200 dello scorso 23 aprile, ha affermato che per avere il risarcimento del danno biologico, gli eredi del defunto devono dimostrare che la morte è avvenuta per super lavoro.
La causa è giunta in Cassazione dopo che, la Corte d’appello, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda proposta dagli eredi di un dipendente della Fiat Auto, volta ad ottenere il risarcimento del danno biologico quale conseguenza del decesso del dante causa per infarto determinato dalla stressante attività lavorativa cui era stato sottoposto.
Secondo la Corte d’appello, nel corso del processo, non erano emersi elementi probatori idonei ad affermare la violazione dell’articolo 2087 codice civile da parte del datore di lavoro e che, in ogni caso l’eventuale attività stressante svolta dal lavoratore, ritenuta dal Tribunale legata da nesso causale con il decesso di quest’ultimo, sarebbe stata circoscritta al periodo compreso tra giugno e novembre 1992 e cioè circa due anni e mezzo prima rispetto al momento in cui il S. fu colpito da infarto.
Secondo la Corte, comunque, difettavano i presupposti per il riconoscimento del danno biologico richiesto sia iure proprio sia iure hereditatis.
Gli eredi dell’operaio defunto, ricorrono in Cassazione affermando che “il decesso del de cuius fu sicuramente determinato da una patologia legata all’ambiente di lavoro: l’infarto mortale fu l’evento finale di uno stato di malattia non conclamata determinata dallo stress psicofisico cui il lavoraotre era stato assoggettato nello svolgimento dell’attività lavorativa e che aveva determinato la cardiopatia ischemica e poi la morte”.
Gli Ermellini, concordano con quanto stabilito dalla Corte d’appello, ossia che, “dalla prova testimoniale svolta, non si potessero ricavare significativi ed inequivoci elementi per poter affermare la violazione da parte del datore di lavoro dell’art 2087 cc.”.
Inoltre, si legge nella sentenza, “La Corte ha sottolineato che l’eventuale attività stressante sarebbe stata circoscritta al periodo compreso tra giugno e novembre 1992 e cioè ad un arco di tempo di circa due anni e mezzo ben anteriore rispetto al momento in cui il lavoraotre fu colpito da infarto”.
Inoltre, continuano i giudici di legittimità, “i ricorrenti propongono una diversa valutazione dei fatti formulando in definitiva una richiesta di duplicazione del giudizio di merito, senza evidenziare circostanze decisive che avrebbero consentito, se valutate dalla Corte, di accertare le responsabilità del datore di lavoro ed il nesso causale tra la morte del G.S. e l’inadempimento della società agli obblighi imposti dall’art. 2087 cc”.
“Si limitano a riferire genericamente della stressante attività lavorativa svolta dal loro dante causa ma non evidenziano specifici inadempimenti del datore di lavoro. Affermano che la cardiopatia ischemica causa del decesso fu l’evento finale di uno stato pregresso di malattia, ma omettono, ai fini dell’autosufficienza del ricorso in Cassazione non essendovi menzione nella sentenza impugnata di detta malattia pregressa del de cuius, di indicare di aver allegato nel ricorso introduttivo l’esistenza di una patologia pregressa o gli elementi probatori da cui detta patologia risultava accertata”.
Inoltre, conclude la Suprema Corte, mancano anche “i presupposti sia per il riconoscimento di un risarcimento ai ricorrenti iure proprio non avendo essi esposto di aver subito una lesione della propria integrità psicofisica per la perdita del congiunto e sia per il riconoscimento di un risarcimento iure hereditatis in quanto G.S. era deceduto per infarto, con la conseguenza che non si erano verificati neppure i presupposti per l’insorgenza del diritto al risarcimento in capo al defunto in assenza di un apprezzabile lasso di tempo tra l’insorgere delle lesioni colpose e la morte causata dalle stesse”.