Il licenziamento economico o per giustificato motivo oggettivo, come è noto, è indipendente dai comportamenti del lavoratore, ma attiene a ragioni produttive e organizzative e al regolare funzionamento dell’azienda, a patto che tale recesso unilaterale sia fondato su una motivazione realmente esistente e non pretestuosa. Non solo. Il licenziamento può essere determinato anche dalla mera soppressione della posizione alla quale era addetto il lavoratore.
Recentemente la Cassazione è intervenuta con l’ordinanza n. 18904 del 10 luglio scorso, grazie alla quale ha rimarcato che il dipendente ha diritto al cd. repêchage al posto del licenziamento economico. Vediamo più da vicino la vicenda e la decisione del giudice di legittimità.
Licenziamento economico e repêchage: il contesto di riferimento
In linea generale, il diritto al repêchage consiste in sostanza nel diritto ad essere adibiti a mansioni inferiori, e a esso corrisponde l’obbligo per il datore di lavoro – anteriormente alla scelta del licenziamento – di verificare tutte le alternative e le possibilità di ricollocazione del lavoratore all’interno dell’azienda, in esubero o divenuto inidoneo alle mansioni assegnategli.
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Non riferibile al recesso per ragioni disciplinari (giustificato motivo soggettivo e giusta causa), il c.d. repêchage è dunque legato strettamente al giustificato motivo oggettivo di licenziamento (art. 3 della l. n. 604/1966). Tuttavia non è una creazione del legislatore, bensì della giurisprudenza: il repêchage è una sorta di onere che i giudici hanno posto in capo all’azienda ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In sostanza il licenziamento deve essere sempre l’extrema ratio e, ove possibile, il posto di lavoro va salvato occupando il dipendente in mansioni diverse ed anche inferiori.
Il caso concreto e l’onere della prova in capo all’azienda
Con l’ordinanza n. 18904 pubblicata il 10 luglio scorso, la Corte di Cassazione è stata chiamata a decidere su una disputa in campo di rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato, rimarcando che anche a tale fattispecie deve essere esteso l’adempimento del dovere datoriale di del repêchage, prima che venga inflitto il provvedimento espulsivo nei confronti del lavoratore subordinato interessato dalla soppressione del proprio posto di lavoro. Da notare altresì che il repêchage può legittimamente concretizzarsi nel demansionamento da impiegato a operaio.
I fatti di causa indicano che un dipendente aveva impugnato in tribunale il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ritenendolo illegittimo. In secondo grado la Corte d’Appello di Roma rigettò la tesi del dipendente, dando di fatto ragione alla società datrice di lavoro.
Si giunse così al ricorso in Cassazione e, in questa sede, la Corte – nel ribaltare la pronuncia di merito – ha rilevato che;
- l’azienda ha l’onere della prova di aver adempiuto all’obbligo di repêchage;
- tale onere si riferisce anche alle mansioni inferiori, con la conseguenza che l’azienda deve dimostrare che alla data del recesso unilaterale per giustificato motivo oggettivo, non vi sia – in riferimento all’organizzazione aziendale di quel momento – alcuna altra posizione lavorativa in cui il dipendente possa utilmente essere reinserito;
- prima di intimare il licenziamento, l’azienda deve prospettare con chiarezza al dipendente la possibilità di essere adibito anche ad una mansione inferiore, con conseguente possibile demansionamento.
Ma se il lavoratore non accetta questa soluzione alternativa, il datore può recedere dal rapporto. Infatti nel testo dell’ordinanza n. 18904 si trova scritto quanto segue:
A fronte dell’esistenza di mansioni inferiori il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento, deve offrire la mansione alternativa anche inferiore al lavoratore, prospettandone il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore.
E a sostegno di questo indirizzo, la Corte richiama vari altri suoi provvedimenti, come l’ordinanza n. 31561 del 2023 o la sentenza n. 10018 del 2016.
La decisione della Corte
Il provvedimento della Suprema Corte è favorevole al lavoratore, il cui ricorso è stato accolto dichiarando l’illegittimità del licenziamento economico. Infatti l’azienda non era stata in grado di provare che, al momento del licenziamento, non esisteva nessuna ulteriore posizione lavorativa in cui potesse utilmente essere inserito il licenziando dipendente.
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Ad esempio, il datore avrebbe potuto provare che il lavoratore non possedeva la capacità professionale richiesta per svolgere un diverso ruolo, oppure che i posti rimanenti erano stabilmente occupati, ovvero che lo stesso dipendente non aveva espresso il proprio consenso alla prospettata possibilità di reimpiego in mansioni diverse e inferiori.
Se il datore di lavoro, come nel caso visto nell’ordinanza n. 18904 del 10 luglio scorso, non rispetta l’obbligo di repêchage, il licenziamento per motivi economici sarà illegittimo e il lavoratore avrà diritto alla reintegrazione nell’azienda. Si palesa infatti una violazione dell’art. 3 della legge 604/1966 in quanto – lo ribadiamo – pur essendovi all’atto del recesso delle posizioni di lavoro alternative ancorché in mansioni inferiori (anche a tempo determinato), non è stata compiuta alcuna offerta di lavoro (ne a tempo indeterminato, né a tempo determinato) per la ricollocazione in tali mansioni.
E peraltro questo vale anche se la decisione del licenziamento è stata presa dopo il tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 7 della legge n. 604/1966, compiuto innanzi alla commissione istituita presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro.
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