Tra le organizzazioni internazionali di maggior rilievo vi è l’OCSE, acronimo di Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ovvero un’istituzione avente lo scopo di promuovere politiche che migliorino il benessere economico e sociale delle persone in tutto il globo. Vero è che le attività dell’OCSE riguardano la raccolta e l’analisi di dati economici, come pure lo sviluppo di linee guida e raccomandazioni politiche. In particolare, l’OCSE si occupa anche di pensioni e previdenza e, proprio per questo, non può passare inosservato il suo nuovo rapporto sulle pensioni.
Ebbene, l’organizzazione citata non delinea un roseo futuro pensionistico per i giovani del nostro paese: infatti di questo passo e con le regole previdenziali attuali, i giovani che cominciano a lavorare oggi andranno in pensione non prima dei 71 anni di età anagrafica.
Sicuramente è un dato che fa riflettere, ma non è il solo dell’indagine OCSE pubblicata il 13 dicembre scorso. Vediamo più da vicino.
Riforma pensioni non più rinviabile
L’OCSE rappresenta una voce autorevole anche per ciò che attiene all’analisi e alla valutazione dei sistemi previdenziali nei paesi occidentali. Infatti l’organizzazione raccoglie dati, porta avanti studi e fornisce raccomandazioni su questioni legate alle pensioni, compresi delicati temi come la sostenibilità finanziaria dei sistemi previdenziali, l’adeguatezza delle pensioni, l’età pensionabile e varie questioni legate al benessere finanziario dopo il pensionamento.
L’OCSE – dicevamo – ha pubblicato il nuovo rapporto “Pensions at a Glance 2023”, in cui ha indagato sulle sfide per le pensioni che nascono dall’elevata inflazione – mostrando le distinte misure introdotte nei paesi OCSE negli ultimi anni.
Ebbene, sono i freddi numeri che meglio di qualsiasi altro dato rappresentano l’attuale situazione delle pensioni in Italia. Basti pensare all’eccessiva spesa per la previdenza, in quanto l’OCSE ha indicato che nel 2021 ha raggiunto ben il 16,3% del PIL italiano. Mentre per il 2035 si prevede possa toccare quota 17,9%. E nel rapporto si legge che in Italia:
Le possibilità di andare in pensione prima dell’età pensionabile prevista dalla legge risultano molto vantaggiose. La concessione di benefici relativamente elevati a età relativamente basse nell’ambito delle Quote, contribuisce alla seconda più alta spesa per la pensione pubblica tra i paesi OCSE.
Mentre oggi l’età media di pensionamento tra i paesi membri dell’Organizzazione è di circa 64 anni.
In pensioni a 71 anni: le previsioni dell’OCSE
In base all’ultimo rapporto OCSE “Pensions at a glance”, i giovani italiani appena entrati nel mercato del lavoro andranno in pensione intorno ai 71 anni. Osservando i dati degli altri paesi, si rivela un’età tra le più elevate.
Infatti nel rapporto OCSE è indicato che:
Per chi entra ora nel mercato del lavoro l’età pensionabile normale raggiungerebbe i 70 anni nel Paesi Bassi e Svezia, 71 anni in Estonia e Italia e anche 74 anni in Danimarca
e che:
L’Italia garantisce un ampio accesso al pensionamento anticipato, spesso senza una penalità.
Da questo punto di vista, ben si comprende allora la linea della manovra 2024, orientata ad investire, ma con molta oculatezza e cautela: la tenuta dei conti pubblici va salvaguardata e, per farlo, non sorprende la stretta sulle pensioni anticipate – disposta negli articoli del testo della legge di Bilancio (e pur con un parziale dietrofront in riferimento alle professioni mediche). Tuttavia per il 2024 non è programmata una riforma previdenziale tout court.
La riforma previdenziale come antidoto ai problemi odierni
Il rapporto OCSE conferma delle previsioni già ben note in Italia: se non ci saranno cambiamenti e modifiche radicali al sistema previdenziale del nostro paese, i giovani – come dicevamo – potranno uscire dal mondo del lavoro soltanto raggiunti in 71 anni di età anagrafica – e dunque al di là di quanta contribuzione è stata maturata durante la carriera. Al momento l’età pensionabile per la pensione di vecchiaia è pari a 67 anni (legge Fornero), con minimo 20 anni di contribuzione e un importo almeno 1,5 volte il trattamento minimo.
D’altronde in Italia l’aspettativa di vita è alta e, conseguentemente, le pensioni vengono pagate a lungo dall’Inps, le cui casse con sempre maggiore difficoltà sostengono gli obblighi nei confronti di chi ha maturato i requisiti per il collocamento in quiescenza.
A pesare, come rilevato da non pochi esperti in materia previdenziale, sono le deroghe per favorire le uscite anticipate. Basti pensare ad esempio alle varie Quote succedutesi nel corso degli anni, che non di rado hanno garantito l’accesso alla pensione senza decurtazioni dell’assegno, o a canali specifici come Opzione donna o l’Ape Sociale. Ecco perché serve una radicale, innovativa e completa riforma previdenziale, non essendo sufficiente – se non nel breve termine – il taglio alle pensioni agevolate.
Molti contributi, ma non bastano a risollevare il sistema pensionistico italiano
Il rapporto OCSE di fatto mostra e conferma uno sconfortante scenario, anche pensando all’alto livello di contribuzione versata dai lavoratori, che non basta al buon funzionamento di tutto il sistema. Anzi la spesa previdenziale resta troppo alta per la sostenibilità da parte di Inps sul lungo periodo.
In Italia l’aliquota contributiva, com’è noto, corrisponde ben al 33% (seguono la Repubblica Ceca con il 28% e la Francia con il 27,8% precisa l’OCSE), di cui un terzo è a carico del lavoratore subordinato e due terzi a carico dell’azienda. Se essa da un lato assicura importi più alti, dall’alto rischia – nel lungo periodo – di danneggiare seriamente la competitività dell’economia e di penalizzare il mondo del lavoro – rimarca ancora l’Organizzazione.
Inoltre l’OCSE rileva che
Le entrate derivanti dai contributi pensionistici rappresentano solo l’11% circa del PIL e necessitano di ingenti finanziamenti fiscalità generale.
Inps
Non solo. Già la scorsa primavera Inps aveva lanciato l’allarme maxi buco nei conti per l’inflazione crescente, rispetto alla quale sono indicizzate le pensioni. L’istituto ha infatti rimarcato che l’adeguamento all’aumento del costo della vita, di cui alla manovra 2023, ha già aumentato la spesa previdenziale per 22 miliardi, ma senza che allo stesso tempo fossero indicizzati gli stipendi e dunque, a cascata, anche i contributi.
Insomma le pensioni sono ulteriormente cresciute, andando a gravare ulteriormente sulle uscite dell’Inps, ma senza che – al contempo – salissero anche le retribuzioni e i contributi previdenziali. E se, per questo, l’Inps si è mostrata favorevole all’idea del salario minimo, è altrettanto vero che permane il problema di fondo dato dall’aver concesso per decenni pensioni non supportate da un corrispondente gettito contributivo.
Detto problema, secondo gli esperti di previdenza, sta alla base non soltanto del disavanzo pensionistico, ma anche di gran parte del debito pubblico. Ecco perché – come anche segnalato dall’OCSE – sarà necessario adottare interventi drastici per la salvaguardia del sistema previdenziale nel suo complesso.