Alcune considerazioni, per le parti relative al diritto del lavoro, sul Decreto Legge avente ad oggetto “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese” licenziato nella notte tra il 2 e il 3 luglio dal Consiglio dei Ministri con il nome “Dl Dignità”.
Potete trovare il nostro articolo completo, con allegato il testo integrale del Decreto-Legge Dignità in un nostro precedente articolo pubblicato in data 3 luglio, seguendo questo link.
Dl Dignità: quanto alla forma
Introdurre una riforma del lavoro per Decreto Legge non è mai positivo: le ragioni straordinarie ed urgenti richieste dalla Costituzione ed indicate nella parte preliminare del Decreto (“introdurre misure per la tutela della dignità dei lavoratori, delle imprese e dei professionisti”) potrebbero – a mio giudizio – non superare il vaglio della Corte Costituzionale.
In ogni caso, il potere legislativo – in materia di lavoro – dovrebbe essere esercitato dal Parlamento e non dal Governo. Il nome “Decreto Dignità” non mi piace affatto anche perché i lavoratori dipendenti, la dignità, l’hanno sempre mantenuta, anche quando c’erano contratti a progetto e voucher.
Quanto al merito: sui licenziamenti
Il Decreto Legge non reintroduce l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori in materia di licenziamenti illegittimi; ma mantiene l’impianto sanzionatorio previsto dal D.Lgs. 23/2015 (“tutele crescenti”) aumentando l’indennizzo, minimo e massimo, spettante al lavoratore rispettivamente a sei (non più 4) e trentasei (non più 24) mensilità.
Sempre in relazione al merito: contratti a termine
Maggior impegno, invece, è stato profuso sui contratti a tempo determinato: la durata massima è stata ridotta a 24 mesi (in luogo dei precedenti 36), la libertà di assunzione senza causale è stata limitata ai primi 12 mesi (poi è necessario indicare le specifiche esigenze temporanee e oggettive per l’assunzione a termine).
Per i rinnovi è sempre necessario indicare la causale mentre per le proroghe l’obbligo scatta dopo i primi 12 mesi; le proroghe massime consentite sono state ridotte a 4 anziché 5. Il termine per impugnare il contratto è stato allungato a 180 giorni.
Il Decreto ha inoltre introdotto limiti (i medesimi dei contratti a termine) alle somministrazioni a tempo determinato; ha incrementato il contributo a carico dell’azienda in caso di rinnovo del contratto a tempo determinato. Ha infine previsto la decadenza dei benefici economici ottenuti dallo Stato rispettivamente il recupero del beneficio dell’iper ammortamento per le aziende che delocalizzano o che riducono i livelli occupazionali.
In conclusione
Rispetto alla disciplina preesistente (introdotta solo pochi anni fa) il Dl Dignità segna senza dubbio un miglioramento, seppur timido, per le condizioni dei lavoratori dipendenti; soprattutto per i limiti introdotti alle assunzioni a tempo determinato.
Dalla liberalizzazione dei contratti a termine del 2014/2015, infatti, è aumentato il precariato. Si stima che oggi, terminata la decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato, oltre il 90 per cento delle assunzioni avviene a termine, e queste vengono reiterate senza vincoli, entro l’attuale limite di 36 mesi. Ciò non poteva essere accettato né dai lavoratori dipendenti né da chi ne rappresenta gli interessi.
Certamente le misure potevano essere più incisive, ma almeno è stato posto un argine alla proliferazione dei contratti a termine. (Ad esempio non sono previste forme premiali per le stabilizzazioni a tempo indeterminato).
Sui licenziamenti, invece, si poteva e doveva fare di più: non è sufficiente aumentare la misura minima e massima dell’indennizzo; restano le tutele crescenti che tutelano più chi licenzia ingiustamente piuttosto chi viene ingiustamente licenziato.
Sarebbe stato auspicabile la reintroduzione di tutele più incisive in favore di lavoratori ingiustamente licenziati. (es. reintegrazione o indennità universale più alta non parametrata all’anzianità di servizio). Ma in quel caso si sarebbe dovuto chiamare “Decreto Coraggio” e non “Decreto Dignità”.