La riforma Fornero del lavoro, dichiara guerra alle finte partite Iva e, all’odioso fenomeno dell’associazione in partecipazione. Tali modifiche a queste due tipologie contrattuali, mirano a “limitarne l’uso improprio e distorsivo al solo scopo di abbattere il costo del lavoro aggirando gli obblighi previsti per i rapporti di lavoro subordinato”; così facendo si cerca di limitare, dunque, anche la precarietà che, dall’uso improprio di questi contratti, deriva.
In merito alle Partite Iva, l’obiettivo è di evitare utilizzi impropri delle collaborazioni professionali con titolarità di partita IVA (negli ultimi anni notevolmente aumentati), in sostituzione di contratti di lavoro subordinato.
Le norme in questione, introducono una presunzione, salvo prova contraria (ferma restando, cioè, la possibilità del committente di provare che si tratti di lavoro genuinamente autonomo), circa il carattere coordinato e continuativo (e non autonomo ed occasionale) della collaborazione tutte le volte che:
- la collaborazione duri complessivamente più di sei mesi nell’arco di un anno;
- da essa il collaboratore ricavi più del 75% dei corrispettivi (anche se fatturati a più soggetti riconducibili alla medesima attività imprenditoriale);
- comporti la fruizione di una postazione di lavoro presso la sede istituzionale o le sedi operative del committente.
Questi indici presuntivi, possono essere utilizzati disgiuntamente nel corso dell’attività di verifica. Qualora l’utilizzo della partita Iva venga giudicato improprio, si applica la sanzione prevista dall’art 69 D.lgs. 276/2003 (Divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici e conversione del contratto), secondo cui, “I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto”.
Associazione in partecipazione
Anche per le associazioni in partecipazioni con apporto di lavoro, l’obbiettivo della riforma è limitare al massimo e, punire l’uso distorto che si fa di questo istituto.
L’associazione in partecipazione, disciplinata dall’art 2549 c.c., è un contratto con il quale una parte (l’associante) attribuisce ad un’altra (l’associato) il diritto ad una partecipazione agli utili della propria impresa o, in base alla volontà delle parti contraenti, di uno o più affari determinati, dietro il corrispettivo di un apporto da parte dell’associato. Tale apporto, secondo la giurisprudenza prevalente, può essere di natura patrimoniale ma potrà anche consistere nell’apporto di lavoro, o nell’apporto misto capitale/lavoro.
Negli ultimi anni questa particolare forma contrattuale è divenuto uno dei tanti metodi di elusione della normativa sul lavoro subordinato; proprio di recente la Cassazione è intervenuta sul tema, affermando la natura di lavoro subordinato di alcuni commessi, assunti con contratto di associazione in partecipazione poichè, i lavoratori non partecipavano nè al rischio di impresa, nè godevano di autonomia organizzativa.
La riforma dunque, oltre a garantire l’effettività della partecipazione agli utili da parte dell’associante e la consegna, a quest’ultimo, del rendiconto societario, ne vuole limitare l’uso solo in caso di associazioni tra familiari entro il 1° grado (cioè tra genitori e figli) o coniugi. In mancanza di questi requisiti, il rapporto si presumerà di natura subordinata (fatta salva la prova contraria).