Dopo il polverone sollevato qualche giorno fa a seguito degli emendamenti presentati dal Governo all’articolo 4 del disegno di legge-delega n. 1428/2014 o Jobs Act, è nata una buona discussione in rete e sui media su come potrebbe essere modificato l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, senza snaturarne la sua valenza di tutela del lavoratore.
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Fra le varie proposte degli esperti in materia, una in particolare mi ha colpito, per la sua semplicità, ma anche perchè a mio avviso potrebbe rappresentare, con qualche limatura, una valida alternativa all’attuale rigidità dei contratti a tempo indeterminato per le aziende sopra i 15 dipendenti, ma senza sbilanciare troppo il rapporto di lavoro verso il datore.
Ne hanno parlato Tito Boeri e Pietro Garibaldi su Lavoce.info, blog economico di rilievo nazionale in un articolo dal titolo “Quali tutele? E quanto crescenti?” del 23 settembre. La loro è una riproposizione di un vecchia proposta di legge presentata dal Senatore Paolo Nerozzi nel 2010 sul Contratto Unico di inserimento, ovvero un contratto a tempo indeterminato fin dalla sua stipula con tutele crescenti.
IL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI…
Il testo di legge delega fa riferimento a un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti per i nuovi assunti. Si tratta di un principio e un’idea su cui ci siamo personalmente impegnati su questo sito da quasi dieci anni (si vedano “Il testo unico del contratto unico“, “Tutti i vantaggi del contratto unico” ed il libro “Un Nuovo contratto per tutti“, edizioni Chiare Lettere). Occorre però essere molto attenti ai dettagli. Il testo non specifica ancora in alcun modo di quali tutele si parli e di come le stesse tutele varieranno con l’anzianità di servizio. Alcuni esponenti della maggioranza (appartenenti per lo più al Ncd) sostengono che il nuovo contratto contemplerà il reintegro soltanto per il licenziamento discriminatorio ed escluderà il reintegro in caso di licenziamento per motivi economici, sostituito completamente da un indennizzo monetario. Il Partito democratico sembra invece spaccato al suo interno tra coloro che auspicano che il nuovo contratto mantenga, a una certa anzianità di servizio, anche la reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa e coloro che sostengono che il nuovo contratto non debba considerare la cosiddetta “reintegra” o “tutela reale” oggi offerta dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ai dipendenti a tempo indeterminato di imprese con più di 15 addetti, fatto salvo il caso di licenziamento discriminatorio.
…IL CONTRATTO UNICO DI INSERIMENTO
La nostra personale posizione è riassunta nel disegno di legge sottoscritto dal senatore Paolo Nerozzi (e altri cento senatori) nel 2010 e poi presentato anche alla Camera da Pier Paolo Baretta. Il disegno di legge istituisce il “contratto unico di inserimento”. Si tratta di un contratto a tempo indeterminato fin dalla sua stipula con tutele crescenti. Il contratto prevede due fasi che si succedono automaticamente a tre anni dalla stipula, senza alcun atto amministrativo o conversione.
La fase di inserimento – che nella nostra proposta dura tre anni – e la fase di stabilità. Nella fase di inserimento, il reintegro è concepito soltanto per il licenziamento discriminatorio, mentre il licenziamento economico è consentito dietro un indennizzo pari a cinque giorni lavorativi ogni mese di anzianità aziendale, raggiungendo così sei mesi di salario dopo tre anni di anzianità. Nella fase di stabilità vige la normativa vigente, inclusa la reintegra nelle imprese con più di 15 dipendenti.
Riteniamo fondamentale che la fase di inserimento non sia inferiore a tre anni e che preveda un congruo indennizzo. L’errore più grande che si può commettere è quello di considerare la fase di inserimento come una semplice estensione del periodo di prova. In quel caso, il lavoratore potrebbe essere licenziato senza alcun indennizzo. Al tempo stesso, riteniamo che la fase di inserimento possa anche essere estesa oltre i tre anni, con un progressivo aumento dell’indennità da corrispondere al lavoratore in caso di interruzione per motivi economici. Ad esempio, si potrebbe arrivare a una fase di inserimento di sei anni con un indennizzo che arriva al termine di questo periodo a un anno di salario. Siamo profondamente convinti che dopo un periodo di inserimento sufficientemente lungo, le imprese troverebbero comunque poco conveniente interrompere un contratto di lavoro con un lavoratore ormai formato, per di più dovendogli corrispondere un anno di salario. Le imprese vivono per massimizzare profitti e il proprio valore, non per licenziare i loro dipendenti.
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