Posso assumere mio figlio o mia moglie? Mio padre può lavorare gratuitamente nel mio bar? Mia sorella o mio fratello possono darmi una mano qualche volta al ristorante? Quando si parla di rapporto di lavoro tra familiari sono queste le domande che più spesso ci vengono poste, proprio perchè riguardano realmente la vita di tutti i giorni.
Ma cosa dice il diritto del lavoro in merito alle collaborazioni familiari gratuite o retribuite e inquadrate con normali rapporti di lavoro subordinati o parasubordinati? Analizziamo la questione in dettaglio.
Rapporto di lavoro tra familiari: cosa dice la legge
Introdotto nel lontano 1975 nell’ambito della riforma sul diritto di famiglia (articolo 89, Legge numero 151) l’articolo 230 – bis del Codice civile tutela il lavoro continuativo prestato da un soggetto in favore dell’impresa gestita da un familiare. Scopo della norma è garantire, nei casi in cui il rapporto non sia configurabile come il classico lavoro subordinato, lavoro autonomo o collaborazione coordinata e continuativa, una tutela particolare minima ed inderogabile, tra cui figurano il diritto al mantenimento e la partecipazione agli utili dell’impresa.
Accanto al lavoro reso in famiglia o nell’impresa familiare (che si presume gratuito) esiste una terza alternativa rappresentata dai componenti il nucleo, conviventi, che prestano l’attività in maniera occasionale, per ragioni di carattere affettivo e solidarietà.
Sulla copertura contributiva ai fini INPS, nei casi di rapporti di lavoro subordinato con parenti o affini del datore di lavoro, l’Istituto ha di recente ricordato, con il Messaggio del 14 luglio scorso numero 2819, che la prestazione si presume a titolo gratuito ed è pertanto necessario verificare l’eventuale sussistenza dei requisiti della subordinazione.
Questo orientamento si traduce in una dichiarazione che il datore di lavoro dovrà rendere in sede di prima iscrizione dell’azienda.
Rapporto di lavoro tra familiari: lavoro nell’impresa familiare, subordinato, parasubordinato o autonomo
La tutela garantita dal Codice civile all’articolo 230-bis per quanti collaborano nell’impresa familiare, opera soltanto in via residuale quando non esiste già un diverso rapporto di lavoro. E’ il caso, ad esempio, delle diverse tipologie di contratti di lavoro subordinato o parasubordinato (si pensi alle collaborazioni coordinate e continuative).
Il carattere “residuale” dell’articolo 230-bis risponde alla necessità di garantire una tutela minima ed inderogabile ai familiari quando, per le caratteristiche dell’attività, non può configurarsi alcuna tipologia contrattuale “classica” di tipo subordinato, parasubordinato o autonomo.
Lavoro subordinato, parasubordinato o autonomo: cosa scegliere?
Una volta sdoganato il dubbio tra lavoro familiare e non, i criteri di scelta della forma contrattuale corretta sono quelli in generale applicati per i rapporti di lavoro che non si sviluppano all’interno della famiglia.
In particolare il lavoratore è:
- soggetto al potere direttivo, organizzativo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro? In tal caso è opportuno attivare un rapporto di lavoro dipendente;
- autonomo nell’esecuzione dell’attività (in merito ai tempi di lavoro e alle modalità di esecuzione) ma deve coordinarsi con il datore ed essere inserito in maniera funzionale nell’organizzazione del medesimo? Se sì, è opportuno ricorrere alla collaborazione coordinata e continuativa;
- autonomo nell’esercizio dell’attività senza alcun coordinamento con il committente? E’ il caso, questo, del rapporto di lavoro autonomo.
Si possono assumere i familiari con apprendistato?
Come chiarito dal Ministero del lavoro con la Circolare del 6 giugno 2022 numero 12 è consentito ai familiari che prestano attività non occasionale in favore di coniuge, parente o affine, la “possibilità di instaurare rapporto di lavoro subordinato con contratto di apprendistato di primo livello, senza incorrere in sanzioni o provvedimenti di disconoscimento del rapporto”.
A fronte del principio di presunzione della gratuità dei rapporti di lavoro tra familiari, prosegue la Circolare numero 12, sussiste “l’onere della prova della subordinazione in capo al datore di lavoro, anche nella fattispecie dell’impresa familiare”.
Gratuità del lavoro nell’impresa familiare
Applicato in via residuale, il lavoro reso in famiglia o nell’impresa familiare si presume gratuito, per opinione consolidata della giurisprudenza di Cassazione, a meno che la parte che sostiene il contrario non fornisca prova dell’esistenza di un rapporto subordinato ed oneroso.
Sul punto si segnala la sentenza del 30 settembre 2020 numero 20904 con cui la Suprema Corte ha respinto il ricorso di una lavoratrice diretto ad ottenere il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro, sviluppatosi per circa otto anni, oltre al pagamento delle retribuzioni arretrate.
La Cassazione, in particolare, sottolinea che tra “persone legate da vincoli di parentela o di affinità opera una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa, che trova la sua fonte nella circostanza che la stessa viene resa normalmente” per motivi di affetto e benevolenza.
Di conseguenza, per superare tale presunzione, è “necessario fornire la prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione, tra i quali, soprattutto l’assoggettamento al potere direttivo – organizzativo altrui e l’onerosità”.
La presunzione della gratuità e i nuovi vincoli INPS
L’orientamento della Suprema Corte appena descritto è stato abbracciato dall’INPS, come ribadito nel Messaggio del 14 luglio numero 2819. Nelle ipotesi di prestazioni di lavoro tra parenti ed affini conviventi, sottolinea l’Istituto, in virtù del vincolo “che lega i soggetti coinvolti e della relativa comunione di interessi, la prestazione lavorativa si presume a titolo gratuito ed è, pertanto, necessario verificare l’eventuale sussistenza dei requisiti della subordinazione”.
Si richiama nello specifico la sentenza della Cassazione del 27 febbraio 2018 numero 4535, con cui sono stati ribaditi gli elementi oggettivi che consentono di riconoscere l’effettivo inserimento del parente / affine nell’organizzazione aziendale, qualificando il rapporto come subordinato:
- Onerosità della prestazione;
- Presenza costante presso il luogo di lavoro previsto nel contratto,
- Osservanza di un orario coincidente con quello dell’attività economica;
- Programmatico valersi da parte del titolare della prestazione lavorativa del familiare;
- Corresponsione di un compenso a cadenze fisse.
Al riguardo, l’Istituto ha implementato il modulo “Iscrizione Azienda” aggiungendo il campo “Dichiarazione di parentela”.
Di conseguenza, in fase di prima iscrizione, il datore di lavoro dovrà dichiarare se tra gli assunti siano presenti soggetti ai quali lo stesso è legato da rapporti di coniugio, parentela entro il terzo grado o affinità entro il secondo grado.
In caso positivo, sarà necessario inserire nell’apposito campo il codice fiscale del lavoratore e scegliere dal menù a tendina il tipo di relazione che lo lega al dipendente.
La dichiarazione è richiesta nelle ipotesi in cui nell’istanza di iscrizione vengono selezionate le seguenti forme giuridiche:
- Azienda agricola;
- Impresa familiare;
- Impresa individuale;
- Persona fisica;
- Proprietario di fabbricato;
- Società di fatto;
- Società in accomandita semplice;
- S. in nome collettivo;
- S. semplice;
Chi fa parte dell’impresa familiare?
L’impresa familiare può comprendere (articolo 230-bis comma 3), oltre al titolare, i familiari anche non conviventi che svolgono in maniera prevalente e continuativa l’attività.
Nel concetto di “familiari” rientrano:
- Coniuge (o parte dell’unione civile);
- Parenti entro il terzo grado;
- Affini entro il secondo grado.
Eccezion fatta per i conviventi di fatto (di cui analizzeremo poi le particolarità), sono ammessi nell’impresa familiare i cosiddetti “conviventi more uxorio” quelli, per intenderci, legati stabilmente da vincoli affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale.
Come può svolgersi la prestazione?
All’interno dell’impresa il familiare è tenuto a svolgere un’attività di lavoro manuale e / o intellettuale, continuativa, regolare, costante e prevalente, non necessariamente corrispondente ad un tempo pieno.
La Cassazione ha sottolineato che l’attività del familiare deve contribuire ad accrescere la produttività (sentenza del 18 aprile 2002 numero 5603).
Diritti patrimoniali
Nell’ambito delle tutele riconosciute ai familiari, l’articolo 230-bis del Codice civile prevede:
- Il diritto al mantenimento (a prescindere dalla convivenza), tale da soddisfare le normali esigenze di vita;
- Il diritto agli utili, in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato;
- In alternativa alla loro distribuzione, l’impiego degli utili per l’acquisto di beni aziendali o per conseguire incrementi di valore dell’azienda.
Per quanto riguarda il convivente “di fatto” (articolo 230-ter del Codice civile) che “presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente”, questi ha diritto ad una partecipazione a:
- Utili dell’impresa familiare e beni acquistati con gli stessi;
- Incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento;
in relazione al lavoro prestato.
Il diritto di partecipazione sussiste a patto che tra i conviventi non vi sia alcun rapporto di lavoro subordinato o di società.
Copertura INPS ed INAIL
Dal punto di vista della copertura INPS, lo stesso Istituto ha precisato nella Circolare dell’8 agosto 1989 numero 179 che la prestazione “del coniuge, parente od affine nell’ambito dell’impresa familiare, non sussistendo i requisiti del lavoro dipendente, non può essere assoggettata al regime assicurativo generale”.
Sono invece destinatarie di tutela previdenziale, le prestazioni lavorative dei familiari all’interno dell’imprese artigiana, commerciale e, in determinate ipotesi, agricola.
Le considerazioni fatte sull’INPS non valgono in tema di assicurazione INAIL.
Pur in assenza del requisito della subordinazione, i familiari che prestano attività lavorativa manuale o di sovrintendenza all’opera manuale altrui (in via non occasionale) e nell’ambito dell’impresa familiare, devono essere assicurati contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
In questo caso, il premio assicurativo è calcolato in funzione di retribuzioni convenzionali, rivalutate ogni anno.
Lavoro subordinato occasionale dei familiari
Non si parla in generale di “impresa familiare” per il lavoro prestato occasionalmente dai familiari conviventi con l’imprenditore, in maniera spontanea o per adempiere a doveri specifici (ad esempio i doveri tra coniugi o quelli dei genitori verso i figli), nell’ambito di un’obbligazione morale o affettiva.
In tal caso, l’attività si caratterizza per non essere sistematica e nemmeno stabile, non integrante comportamenti abituali o prevalenti nella gestione e nel funzionamento dell’impresa.
Perché si parli di “lavoro occasionale” del familiare, stando alla Lettera Circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro del 15 marzo 2018 numero 50, il limite temporale è di 90 giorni (frazionabili in 720 ore) nel corso dell’anno solare.
In via presuntiva sono comunque sempre considerate lavoro occasionale le “prestazioni rese dai pensionati, parenti o affini dell’imprenditore” nonché quelle svolte dal “familiare impiegato full time presso altro datore di lavoro, considerato il residuale e limitato tempo a disposizione per poter espletare altre attività o compiti con carattere di prevalenza e continuità presso l’azienda del familiare” (Lettera Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 10 giugno 2013 numero 10478).
Le prestazioni occasionali dei familiari sono, per le loro caratteristiche:
- Gratuite, con esclusione del diritto alla retribuzione;
- Esenti dalla tutela previdenziale presso l’INPS nonostante, ha affermato la Cassazione con sentenza del 9 febbraio 1989 numero 818, l’autore percepisca vitto, alloggio e piccole somme per le spese;
- Soggette agli obblighi assicurativi presso l’INAIL, se la prestazione è ricorrente e non accidentale, tale si considera quella resa “una / due volte nell’arco dello stesso mese a condizione che nell’anno le prestazioni complessivamente effettuate non siano superiori a 10 giornate lavorative” (Lettera Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 5 agosto 2013 numero 14184).