Gli obblighi di diligenza e fedeltà del lavoratore dipendente sono previsti dal Codice civile, libro quinto del lavoro, articoli 2014 e 2015; il rapporto di lavoro si fonda sulla fiducia dell’azienda circa il corretto svolgimento dell’attività da parte dei propri dipendenti.
Per questo, al fine tutelare l’azienda dal punto di vista produttivo ed economico il codice civile impone alcuni obblighi ai lavoratori. Tra questi se ne menzionano due:
- Obbligo di diligenza;
- Obbligo di fedeltà.
Questi impegni devono essere rispettati per l’intero periodo in cui il contratto è in essere e, a determinate condizioni, anche dopo la sua eventuale risoluzione.
Vediamo nel dettaglio cosa prevedono e quali conseguenze sono legate alla loro inosservanza.
Obbligo di diligenza del lavoratore
La diligenza del lavoratore dipendente consiste nell’obbligo imposto dal codice civile (art. 2104 comma 1) di svolgere l’attività con l’esattezza e la scrupolosità richieste dalle mansioni assegnate.
Questo significa che la diligenza cui è tenuto un impiegato di concetto è diversa rispetto a quella dovuta dal dirigente.
L’obbligo di diligenza si ritiene altresì rispettato se l’attività lavorativa svolta dal dipendente si concilia con quella degli altri colleghi.
Inadempimento dell’obbligo di diligenza
Se il dipendente non rispetta l’obbligo di diligenza incorre innanzitutto in sanzioni disciplinari, qualora la condotta sia contraria al regolamento disciplinare o al contratto collettivo applicato.
A seconda della gravità del fatto compiuto la sanzione può essere conservativa, ad esempio richiamo verbale, ammonizione scritta, multa, sospensione dal lavoro, trasferimento fino ad arrivare al licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
Naturalmente, prima di irrogare qualsiasi provvedimento disciplinare diverso dal richiamo verbale dev’essere rispettata un’apposita procedura che prevede:
- Predisposizione e affissione del codice disciplinare;
- Contestazione dell’addebito al dipendente;
- Concessione al dipendente di cinque giorni di tempo per presentare eventuali giustificazioni o argomenti a difesa;
- Adozione del provvedimento.
Quando poi la condotta del dipendente causa un danno all’azienda (e questa riesce a provarlo), lo stesso è tenuto al risarcimento del danno.
È fatto obbligo al datore di fornire prova adeguata del danno subito mentre il dipendente deve dimostrare di aver adottato la diligenza richiesta dalla mansione svolta.
Obbligo di fedeltà del lavoratore dipendente
L’obbligo di fedeltà previsto dal codice civile (art. 2105) impone ad ogni dipendente il divieto di astenersi dal:
- Trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’attività dell’azienda nello stesso settore commerciale o produttivo (si parla di “divieto di concorrenza”);
- Divulgare notizie riguardanti i metodi di produzione dell’azienda ovvero di usare tali informazioni per arrecarle danno (cosiddetto “obbligo di riservatezza”).
La giurisprudenza di Cassazione ha negli anni ampliato il concetto di “riservatezza” ora inteso come l’obbligo di tenere un comportamento leale, caratterizzato da buona fede e correttezza, tale da proteggere il datore di lavoro dall’utilizzo dannoso delle informazioni di cui il dipendente viene a conoscenza nell’espletamento delle sue attività.
L’obbligo di fedeltà dev’essere rispettato non solo in orario di lavoro ma anche al di fuori dello stesso come nei periodi di sospensione dell’attività. Inoltre, si fa divieto al dipendente di compiere azioni contrarie agli interessi del datore che, sebbene non attualmente produttive di danno, siano:
- Potenzialmente lesive;
- Creino situazioni di conflitto con gli interessi dell’impresa;
- Siano in grado di ledere il rapporto di fiducia tra azienda e dipendente.
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Divieto di concorrenza
Il dipendente svolge attività concorrenziale con la propria azienda quando:
Compie attività che siano anche solo potenzialmente produttive di un danno;
Predispone degli strumenti concorrenziali senza ottenere alcun profitto ma semplicemente violando la fiducia del datore di lavoro.
Il divieto di concorrenza opera soltanto mentre è il contratto di lavoro è in essere, eccezion fatta per i casi di stipula di un patto di non concorrenza che limita l’attività del dipendente anche nel periodo post cessazione del rapporto.
Obbligo di riservatezza
L’altra faccia dell’obbligo di fedeltà è il divieto imposto al dipendente (riservatezza) di divulgare notizie riguardanti l’azienda, sia quelle coperte da segreto che non, queste ultime se idonee ad arrecare pregiudizio.
Per “danno” non si intende solo l’uso delle informazioni in attività concorrenziali ma semplicemente la capacità delle stesse di denigrare l’azienda.
Non rappresenta invece violazione dell’obbligo di riservatezza la diffusione di notizie riguardanti attività illecite compiute dall’azienda (come l’evasione fiscale).
Allo stesso modo non è sanzionabile l’utilizzo di notizie aziendali quando sono un elemento indispensabile del bagaglio di conoscenze acquisite dal dipendente.
Violazione obbligo di fedeltà
Il dipendente che violi l’obbligo di fedeltà si espone a possibili sanzioni disciplinari da parte dell’azienda che possono tradursi, come nel caso della diligenza, nella risoluzione del rapporto per licenziamento disciplinare (giusta causa o giustificato motivo soggettivo).
Il comportamento del dipendente può anche esporlo ad una richiesta dell’azienda di risarcimento del danno, qualora la stessa sia in grado di provarlo e il dipendente non dimostri il contrario.
Patto di non concorrenza
Il patto di non concorrenza è un accordo stipulato in forma scritta (a pena di nullità) tra azienda e dipendente che pone limiti all’attività lavorativa di quest’ultimo dopo la cessazione del rapporto in cambio dell’erogazione di un apposito trattamento economico.
Scopo del patto è di evitare o limitare la possibilità che l’ex dipendente svolga attività in proprio o alle dipendenze di altri in concorrenza con la precedente azienda. L’accordo può essere stipulato in qualunque momento del rapporto, anche dopo la sua cessazione.
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Requisiti del patto
A pena di nullità il patto dev’essere stipulato:
- In forma scritta;
- Prevedere l’erogazione di un compenso economico;
- Imporre vincoli all’attività futura dell’ex dipendente ma limitati in relazione al tempo, all’oggetto della prestazione e al luogo di svolgimento.
Con riguardo all’ultimo punto la giurisprudenza di Cassazione ha chiarito che i limiti imposti dal patto non devono essere talmente ampi da compromettere la capacità del dipendente di percepire redditi.
Il periodo temporale entro il quale agisce il patto è pari a tre anni elevati a cinque per i dirigenti. Questi decorrono dal primo giorno successivo alla cessazione del rapporto.
Ammontare del corrispettivo
Nulla è previsto in merito all’ammontare del corrispettivo. Lo stesso dev’essere comunque congruo alle limitazioni del patto.
La sua erogazione può avvenire nel corso del rapporto, alla cessazione ovvero in un momento successivo. Nella prima ipotesi la somma può essere stabilita in misura fissa o in percentuale rispetto all’intera retribuzione lorda o a determinati elementi della stessa.
Scioglimento e violazione del patto
Il patto può essere sciolto solo con il consenso di entrambe le parti. Si ritiene nulla la clausola del patto che ne subordini lo scioglimento alla sola volontà del datore.
Se l’azienda viola il patto di non concorrenza il dipendente può agire in giudizio per ottenere il corrispettivo previsto o la risoluzione del patto.
Laddove sia il dipendente a non rispettare il patto l’azienda può chiedere la restituzione delle somme erogate oltre al risarcimento danni.