Quando e come è possibile impugnare il licenziamento? Quali sono i termini di impugnazione e come bisogna procedere? Iniziamo dal premettere che quando il datore di lavoro decide di interrompere il rapporto di lavoro interviene l’istituto giuridico del licenziamento; ma qualora il lavoratore ritenesse che questo atto non non fosse legittimo può decidere di impugnarlo. Può chiedere cioè che sia sottoposto in ultima analisi, al giudizio del Giudice del Lavoro.
Partiamo col dire che il licenziamento è il recesso unilaterale del datore di lavoro dal rapporto di lavoro subordinato; proprio perché si tratta di un atto unilaterale il lavoratore può impugnare il licenziamento, ossia contestarlo, ma deve rispettare delle tempistiche e delle modalità ben precise, così come previsto dalla legge.
Passiamo a vedere nel dettaglio cosa c’è da sapere su questo importante diritto dei lavoratori.
Impugnare il licenziamento: termini da rispettare
Generalmente è il lavoratore stesso ad impugnare il licenziamento; in alternativa l’impugnazione può essere proposta tramite associazione sindacale cui aderisce, oppure da un avvocato munito di procura.
Il lavoratore però deve fare attenzione alla procedura che deve seguire, ma soprattutto ad alcune tempistiche che devono essere rispettate, al fine di non rischiare che il suo intento sia vanificato.
Impugnazione stragiudiziale del licenziamento
Il licenziamento deve essere impugnato infatti entro il termine perentorio di 60 giorni dalla comunicazione del recesso. Questo periodo può essere interrotto con qualsiasi atto scritto, giudiziale o stragiudiziale idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore al datore di lavoro. Non è necessario quindi che vengano indicati i motivi fondanti l’impugnazione, nell’atto stragiudiziale, ma basta che si evinca la volontà di procedere all’impugnazione del licenziamento.
Deposito del ricorso in tribunale
La seconda scadenza da ricordare è il deposito del ricorso in tribunale; entro 180 giorni dalla data di impugnazione del licenziamento, questa deve essere seguita dal deposito del ricorso giudiziale. In questo caso il ricorso deve essere necessariamente depositato da un avvocato.
Da considerare che il termine dei 180 giorni decorre dalla data di invio della lettera di impugnazione; non conta quindi quando il datore di lavoro ne è venuto a conoscenza.
Leggi anche: Differenza fra licenziamento per giusta causa e giustificato motivo
Tentativo di conciliazione e arbitrato
In alternativa al ricorso in Tribunale il lavoratore può richiedere al datore di lavoro, negli stessi termini, un tentativo di conciliazione e arbitrato; questo serve per provare a risolvere la questione fuori dalle aule di tribunale.
Nel caso in cui la conciliazione o l’arbitrato siano rifiutati o non venisse raggiunto l’accordo, il ricordo al giudice deve essere depositato, a pena di decadenza, entro 60 giorni decorrenti dal rifiuto o dal mancato accordo.
Può succedere inoltre che il datore di lavoro risponda al tentativo di conciliazione e arbitrato promosso dal lavoratore; in questo caso ci potranno essere opzioni:
- il datore di lavoro accetta il tentativo di conciliazione e arbitrato, ma questo si conclude con un mancato accordo: il termine di 60 giorni non opera. Resta efficace unicamente l’originario termine di 180 giorni, al quale si aggiunge il periodo di sospensione dei 20 giorni previsto dal codice di procedura civile.
- il datore di lavoro rifiuta esplicitamente la richiesta di conciliazione e arbitrato: si applica il termine successivo di 60 giorni per il deposito del ricorso al giudice del lavoro (ma non si applicano i 20 giorni di sospensione del termine di decadenza.
- infine il datore di lavoro accetta il tentativo di conciliazione a arbitrato, ma non deposita la propria memoria di difesa entro 20 giorni: in tal caso si devono conteggiare sia il termine di sospensione di 20 giorni, sia il successivo termine di 60 giorni per il deposito del ricorso in Tribunale.
Conciliazione nel contratto a tutele crescenti
Il 7 marzo 2015 segna una data spartiacque nelle assunzioni dei lavoratori. Infatti, con il D. Lgs 4 marzo 2015 numero 23 relativo a disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti sono state introdotte delle novità anche nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro.
A questi lavoratori considerati “nuovi assunti” si applica la disciplina delle “tutele crescenti”; per evitare che il licenziamento venga impugnato e che il lavoratore faccia ricorso al Giudice del Lavoro, al datore di lavoro è data la possibilità di proporre al lavoratore una conciliazione in una delle sedi protette: presso l’INL, presso una sede sindacale oppure in commissione di certificazione. La conciliazione deve essere proposta entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento e consiste in un risarcimento economico di un importo prestabilito, da pagare con assegno circolare.
Rimane in ogni caso la possibilità delle parti di arrivare a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge.
Questa procedura di conciliazione, e la conseguente accettazione di tale offerta comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla sua impugnazione.
Indennizzo da licenziamento: importi
Nel caso di datori di lavoro che non raggiungano i requisiti dimensionali, quindi fino a 15 dipendenti nell’unità produttiva, o nel comune o 60 dipendenti in tutto il territorio, l’ammontare dell’importo è pari a mezza mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 1,5 e non superiore a 6 mensilità.
Negli altri casi, in riferimento a requisiti dimensionali superiori, la legge n. 96/2018, di conversione del Dl 87/2018, entrata in vigore il 12 agosto 2018, ha disposto che tale importo non può mai essere inferiore a 3 (prima solo 2) e superiore a 27 (prima solo 18) mensilità.
Leggi anche: Licenziamento illegittimo, quali modifiche dal Decreto Dignità