Qual è la differenza fra proroga e rinnovo nel contratto a termine? Questo è un dubbio molto diffuso e molte volte ci troviamo a rispondere a questa domanda nel lavoro di tutti i giorni. La legge stabilisce che il lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro. Ogni altra tipologia contrattuale è ammessa, ma nel rispetto di precisi limiti. Prendiamo il contratto a tempo determinato. Questo si differenzia, per sua stessa definizione, dall’indeterminato per il semplice fatto di avere una data di scadenza, oltrepassata la quale il rapporto si risolve automaticamente senza che il dipendente presenti le dimissioni o l’azienda lo licenzi.
Può accadere però che il datore decida di avvalersi nuovamente delle prestazioni del lavoratore a termine. In questo caso ha due possibilità:
- Spostare in avanti la data di scadenza senza che il rapporto si interrompa (proroga);
- Lasciar scadere il rapporto e riassumere lo stesso dipendente dopo uno stacco temporale, sempre con un contratto a termine (rinnovo).
Comprendere la differenza tra proroga e rinnovo è di fondamentale importanza alla luce dei diversi limiti che la legge impone all’una o all’altra casistica (per le ragioni sopra citate). Peraltro, la normativa dei contratti a termine è stata di recente riformata ad opera del cosiddetto Decreto dignità (Dl. n. 87/2018 convertito in L. n. 96/2018), entrato pienamente in vigore dal 1° novembre 2018.
Vediamo nel dettaglio cosa cambia tra rinnovo e proroga e quali sono i limiti di legge imposti al contratto a tempo determinato dopo il Decreto Dignità.
Contratto a termine: cos’è la proroga e quali limiti ha
La proroga consiste nello slittamento della scadenza originaria ad una data futura. In questo modo, il rapporto non si interrompe ma prosegue regolarmente. Ipotizziamo il caso di un dipendente a tempo determinato assunto l’1 gennaio 2019 con scadenza il 31 marzo 2019. L’azienda decide di proseguire il rapporto per altri due mesi così opta per una proroga. In questo modo, la scadenza originaria al 31 marzo 2019 slitta al successivo 31 maggio senza che cessi il contratto.
Tuttavia, il datore non può prorogare il rapporto all’infinito. La legge glielo impedisce per due motivi:
- La durata massima del contratto a tempo determinato;
- Il numero di proroghe ammesse.
Veniamo al primo limite. La legge consente la stipula di un contratto a termine con il medesimo dipendente per un massimo di 12 mesi, comprensivi delle proroghe. Questo significa che, riprendendo l’esempio precedente, i mesi a tempo determinato intercorsi con il dipendente sono:
- 3 mesi in virtù della scadenza al 31 marzo 2019;
- Altri 2 mesi a seguito della proroga al 31 maggio 2019.
In totale tra azienda e dipendente sono trascorsi 5 mesi a tempo determinato, ne resterebbero altri 7.
Causali
E’ possibile oltrepassare il limite dei 12 mesi solo in presenza di almeno una delle seguenti causali (in caso contrario il rapporto si trasforma a tempo indeterminato dalla data di superamento dei 12 mesi):
- Esigenze temporanee e oggettive, estranee all’attività ordinaria, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
- Esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
Anche in presenza delle causali, il rapporto non può comunque eccedere i 24 mesi complessivi intercorsi tra la stessa azienda e lo stesso dipendente per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale.
Tornando all’esempio, l’azienda, a seguito di esigenze connesse a incrementi temporanei dell’attività ordinaria, decide di prorogare il rapporto scadente il 31 maggio 2019 al 28 febbraio 2020 , in questo modo superando i 12 mesi complessivi, ipotesi concessa dalla normativa proprio perché sorretta da causale.
Al 28 febbraio 2020 l’azienda potrà prorogare ulteriormente il rapporto nel rispetto dei 24 mesi complessivi quindi fino al 31 dicembre 2020 ovvero lasciarlo scadere.
A questo punto è bene considerare il secondo limite. Nel rispetto delle causali e dei 24 mesi complessivi il rapporto può essere prorogato per un massimo di 4 volte. In caso contrario, questo si trasforma a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della quinta proroga.
Nell’esempio precedente le proroghe sono state:
- Prima proroga 31 maggio 2019;
- Seconda proroga 28 febbraio 2020;
- Terza proroga 31 dicembre 2020.
In questo caso, il datore ha rispettato sia il limite massimo di durata (24 mesi) che il numero di proroghe (3 su un massimo di 4).
Cos’è il rinnovo e quali limiti ha
A differenza della proroga, il rinnovo consiste nell’attivazione di un nuovo rapporto a tempo determinato con un dipendente che è già stato parte di un precedente contratto a termine. In questi casi, tra i due rapporti a tempo determinato c’è uno stacco temporale, la cui durata minima è stabilita dalla legge:
- 10 giorni di calendario se il rapporto precedente ha avuto durata pari o inferiore a 6 mesi;
- 20 giorni di calendario se il rapporto precedente ha avuto durata superiore a 6 mesi.
In caso contrario, il secondo rapporto si trasforma a tempo indeterminato.
Prendiamo un dipendente assunto a tempo determinato dal 1 gennaio 2019 al 31 luglio 2019. Alla scadenza, il rapporto non viene prorogato e di conseguenza cessa al 31 luglio, con la liquidazione di tutte le competenze di fine rapporto (ferie e permessi non goduti, mensilità aggiuntive e TFR), al pari degli altri casi di cessazione (dimissioni e licenziamenti). Dal momento che il primo rapporto ha avuto durata superiore a 6 mesi, il datore dovrà attendere il 21 agosto 2019 per riassumere il dipendente.
Causali
Alla stregua della proroga, anche i rinnovi devono rispettare il limite complessivo dei 24 mesi. Con una differenza. A prescindere dal superamento o meno dei 12 mesi, qualsiasi rinnovo dev’essere giustificato da una delle causali richieste dalla legge: esigenze temporanee e oggettive ovvero connesse a incrementi temporanei.
Riprendendo il caso del dipendente cessato il 31 luglio 2019 e riassunto il 21 agosto, anche se qui non sono stati superati i 12 mesi complessivi, il secondo rapporto dev’essere comunque sorretto da causale.
E’ bene precisare che si parla di “rinnovo” solo nei casi in cui il dipendente viene riassunto con contratto a tempo determinato. Non è soggetta ai limiti citati la stipula con il medesimo lavoratore di un contratto di lavoro intermittente a tempo determinato.
Differenza tra proroga e rinnovo: i costi
La differenza tra proroga e rinnovo nel contratto a termine riguarda anche i costi a carico dell’azienda. La proroga ha un costo per l’azienda inferiore rispetto al rinnovo. Il motivo è legato al contributo addizionale dell’1,40% dovuto all’INPS sulla retribuzione imponibile del dipendente a tempo determinato, destinato a finanziare l’indennità di disoccupazione NASPI. Eccezion fatta per i casi in cui il contributo non è dovuto (ad esempio lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti o per lo svolgimento di attività stagionali), questo rimane fisso all’1,40% per tutti i 24 mesi se il rapporto prosegue senza stacchi (le proroghe non incidono sull’ammontare del contributo).
Discorso diverso per i rinnovi. Ognuno di essi comporta un aumento del contributo pari allo 0,50%. L’azienda che rinnova, nel rispetto dei 24 mesi complessivi, il rapporto a tempo determinato per 3 volte, dovrà farsi carico di:
- 1,40% per il primo rapporto;
- 1,40% + 0,50% = 1,90% per il secondo rapporto (primo rinnovo);
- 1,90% + 0,50% = 2,40% per il terzo rapporto (secondo rinnovo);
- 2,40% + 0,50% = 2,90% per il quarto rapporto (terzo rinnovo).
Il contributo (a carico dell’azienda) dovrà essere versato con modello F24 insieme alle altre somme destinate all’INPS.