L’istituto della certificazione dei contratti di lavoro è sorto con il Decreto Legislativo 276 del 2003, con l’obiettivo di ridurre il contenzioso in materia, attraverso una sorta di sigillatura del contratto stesso, da cui possa emergere, in modo chiaro ed inequivocabile, la qualificazione del rapporto di lavoro.
Attraverso il procedimento che porta alla la certificazione dei contratti di lavoro, le parti, Datore di lavoro e Prestatore, si impegnano volontariamente e reciprocamente, per tutelarsi, nel rispetto della normativa giuslavoristica, fiscale, retributiva, previdenziale ed assistenziale.
La certificazione dei contratti di lavoro, un po’ di storia
La legge Biagi fornisce un’esaustiva linea guida, in merito alla la certificazione dei contratti di lavoro, dall’articolo 71 all’articolo 81 (D. Lgs. 276/2003). La legge spiega il fine e la portata dell’istituto, gli ambiti di applicabilità, gli attori e le ricadute verso terzi: Nel corso degli anni, a seguito di problematiche sorte, la giurisprudenza è intervenuta per sanare talune lacune, innovando i succitati articoli, attraverso l’articolo 30, del Collegato Lavoro, legge 183 del 2010.
Ne deriva così una nuova concezione di contratto certificato che, dall’originaria accezione di determinazione della natura del rapporto di lavoro, si orienta verso la determinazione della genuinità della qualificazione stessa, perseguendo sempre l’originario obiettivo della riduzione dei contenziosi in merito.
Certificazione dei contratti di lavoro, ambito di applicazione
L’articolo 75, della normativa Biagi, indica come campo di applicabilità: ovunque sia dedotta, direttamente od indirettamente, una prestazione di lavoro. Si desume quindi che, sia possibile estendere la certificazione anche al contratto di apprendistato, ad esempio. Questo per la garanzia dell’effettiva formazione dovuta o, a sostegno di un’eventuale clausola compromissoria, a previsione di risarcimento dei costi di formazione, in caso di recesso del prestatore, al termine della formazione stessa.
Medesima applicabilità è quindi possibile per il lavoro accessorio, per il contratto in partecipazione e soprattutto nell’appalto. In questa fattispecie, prevista dell’articolo 1665 del codice civile, certificare il contratto, come dichiarato all’articolo 84 della legge 276 del 2003, porrebbe una garanzia nelle fasi di attuazione del contratto stesso. Ai fini prudenziali e, nell’ottica della responsabilità solidale, disporrebbe anche una corretta distinzione tra appalto genuino e somministrazione di manodopera.
Un ulteriore ambito di applicazione, riguarda i procedimenti di transazione e rinuncia, per avvalorare la volontà delle parti e la clausola definitiva del nulla a pretendere, come disposto dall’articolo 2113 del codice civile.
Tipologia delle clausole certificabili
La certificazione del contratto, sempre dal punto di vista del contenuto specifico che, si desideri sancire, può comprendere, nel rispetto delle normative contrattuali vigenti, clausole tipiche. Norme come l’assorbimento del superminimo, riferimenti all’orario di lavoro, deferimento del periodo di ferie, condizioni di miglior favore nei confronti del dipendente ed i cosiddetti, trattamenti economici individuali per i dirigenti.
L’articolo 30 della legge 138 del 2010 ha poi ulteriormente esteso la tipologia delle clausole, come la tipizzazione della risoluzione del rapporto per giusta causa, determinata da appropriazione di denaro o beni aziendali o, per giustificato motivo soggettivo, addotto per un comportamento in forte contrasto con le linee guida aziendali o inerte, rispetto a scadenze amministrative di legge, come ad esempio la compilazione del libro unico del lavoro, il mancato invio del flusso Uniemens o, dei versamenti Iva. Le parti possono infine certificare che il contratto, preveda come clausola compromissoria, in caso dell’insorgenza di controversie tra le stesse, il ricorso all’istituto dell’arbitrato.
Come certificare il contratto di lavoro
L’iter di come si debba procedere, è spiegato con chiarezza agli articoli 76 e 77 della Legge Biagi, indicando che le parti, di comune accordo, debbano necessariamente rivolgersi alle commissioni istituite presso gli organi di certificazione indicati, nel territorio ove sia impiegato il prestatore.
Il ventaglio di scelta è piuttosto ampio: dalle commissioni presso gli Enti Bilaterali, istituite dai rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori, alle commissioni, formate da docenti di diritto, presso atenei e fondazioni universitarie, iscritte ad apposito albo presso il Ministero del Lavoro, ed ancora, le commissioni presso la Direzione Provinciale del Lavoro o presso gli Ordini Provinciali dei Consulenti del lavoro.
Nel caso in cui, il datore di lavoro operasse su due o più province, dovrà allora, rivolgersi direttamente al Ministero del Lavoro e Politiche Sociali, con successiva ratifica da parte della Direzione Provinciale del lavoro.
Dette commissioni devono operare secondo i principi della buona pratica, in realtà ancora oggi non ben chiariti, ed hanno il compito primario di fornire, attraverso il procedimento amministrativo, una valutazione tecnica e giuridica della qualificazione del rapporto di lavoro. La commissione potrà rigettare la certificazione di un contratto, ritenendola non conforme, ma invitando le parti a presentare una nuova istanza, basandosi su presupposti differenti, fornendo quindi anche una consulenza preventiva, ad esempio su come debba essere redatto il contratto.
Una volta operata la scelta, le parti dovranno contestualmente depositare l’istanza in bollo, allegando il contratto oggetto della certificazione, presso la Direzione Provinciale del lavoro che, a sua volta, ne darà notizia alle autorità interessate che potranno esprimere commenti e motivazioni.
Entro trenta giorni dal deposito dell’istanza, constatata l’autonomia e la volontà delle parti, il procedimento deve concludersi, con la redazione di un verbale, comprensivo delle discussioni che, con il contratto certificato, dovrà essere conservato per almeno cinque anni.
Valutazione della produzione degli effetti del contratto
Per la valutazione della produzione degli effetti del contratto, è necessario distinguere tra contratti nuovi, certificati dall’origine, che, producono i loro effetti dal momento del deposito presso la Direzione Provinciale del Lavoro, ed i contratti già in essere e certificati in seguito. In questo caso, la commissione ha il compito di accertare che nel periodo precedente, il contratto abbia avuto esecuzione, secondo i dettami poi oggetto di certificazione, attribuendo pertanto, un valore retroattivo dei suoi effetti.
Questa pratica appare piuttosto complessa e la stessa giurisprudenza stessa, mostra posizioni in disaccordo: la commissione infatti, dovrebbe procedere ad indagini conoscitive, ma non è chiaro sin dove possa spingersi, basterebbero quindi solo le testimonianze delle parti in causa, o si potrebbero sentire terzi, come testimoni? Inoltre il tempo speso per effettuare queste verifiche, comporterebbe un lavoro sincopato, alla ricerca della prova provata che, potrebbe incidere nell’economia temporale in debba esaurirsi la procedura.
Di contraltare, emerge un’ulteriore questione che verte sul rapporto precedente alla certificazione che, senza effetto retroattivo, rimarrebbe per così dire, scoperto.
Se certificare un contratto, significa avvalorarne genuinamente il contenuto, ciò non lo esime da controlli, come ad esempio, in materia di applicazione di normative sulla salute e sicurezza dei lavoratori, come disposto dal testo unico 81 del 2008, ma nemmeno da una possibile impugnazione da parte di terzi, da intendersi come tutti coloro che ne subiscano i riflessi, comprese le Pubbliche Amministrazioni, l’Inail, l’Inps e la Guardia di Finanza.
Ricorso avverso al contratto certificato
Avverso al contratto certificato, è possibile il ricorso seguendo due strade, in base alle motivazioni addotte, come indicate allo stesso articolo 80 della relativa normativa, sia da parte sia del datore di lavoro che del lavoratore, ma anche di eventuali terzi che ne abbiano interesse diretto.
L’articolo 413 del codice di procedura civile, consente il ricorso all’autorità giudiziaria, per motivazioni specifiche, quali, l’erronea qualificazione del contratto, con effetti retroattivi alle origini dell’accordo o, per la difformità tra quanto certificato e quanto in realtà poi attuato, con effetti dall’accertamento della difformità.
Ma in questo caso, a meno che, non si palesino evidenti e provati fatti, rimarrebbe l’onere della prova. Si aggiungono i vizi di consenso, motivazione su cui la dottrina ha dibattuto a lungo, innanzitutto per il requisito di volontarietà con cui le parti adivengono alla certificazione dei contratti di lavoro, accertato dalla Commissione ed inserito nel verbale. Risulta così di non facile attuazione, provare un consenso carpito, a meno che non si sottintenda anche un profilo penale di dolo e corruzione, o di incapacità di intendere e volere non compresa dalla commissione all’atto dell’audizione.
Ricorso al TAR
E’ possibile invece, ricorrere al Tribunale Amministrativo Regionale, ove si constati la violazione nel procedimento, con invalidazione del procedimento di certificazione del contratto o, dove si ravvisi un eccesso di potere. In questo modo, si porrebbe ancora in discussione l’operato della commissione, identificando l’eccesso di potere, come ingerenza di ultra competenza, quindi in contrasto con le buone pratiche.
In base al tipo di ricorso, si avranno differenti effetti sul contratto; se infatti, ricorrendo al Tribunale Amministrativo Regionale, la sentenza si riverbera solo sull’atto di certificazione e non sul contratto, nel caso di ricorso al giudice, opera una sorta di impermeabilizzazione della qualifica del contratto.
Ricorso alla commissione certificatrice
Il ricorrente, prima di adire alle vie ordinarie, dovrà rivolgersi, a norma dell’articolo 410 del codice di procedura civile, alla stessa commissione che abbia concesso la certificazione dei contratti di lavoro, per avviare la procedura di conciliazione.
Nel caso di fallita conciliazione, gli interessati devono agire, perseguendo l’obiettivo di mutare la qualificazione del contratto certificato, sulla scorta dell’articolo 79 della legge 276 del 2003, facendo atto di opposizione, ma solo a seguito di invalidazione giudiziale, vale a dire, che il contratto certificato, rimane protetto, sino a che il giudice ne dichiari invalida la qualificazione; solo allora sarà possibile agire, su un nuovo contratto, diverso, spogliato dalla tutela certificativa.
Anche la Pubblica Amministrazione pertanto, subirà il limite posto dal citato articolo 79, dovendo agire prima, per mutare il contratto e solo, in seguito, potrà applicare controlli, accertamenti e sanzioni, laddove naturalmente, non si rendessero necessari provvedimenti con carattere di urgenza.
Riflettendo infine, sull’opportunità, costi e benefici del ricorso alle certificazioni dei contratti di lavoro, occorre fare un’analisi funzionale del risultato che questa sorta di paracadute, comporti per le parti.
Se si tratti di una consolidata prassi aziendale o, se venga applicata solo a talune categorie di lavoratori e quali sarebbero le eventuali conseguenze sul rapporto di lavoro, date dalla non volontà di aderire all’istituto da una delle parti.
Nella pratica, il ricorso alla certificazione dei contratti di lavoro si rivelerà utile e cautelativo, per l’inserimento di clausole speciali che abbiano genesi dalla contrattazione territoriale. Fondamentale, per eludere i possibili dubbi su un’interposizione illecita di manodopera, come citato, nel contratto di appalto, ma il ricorso risulta decisamente superfluo, qualora si riproducesse la formula prevista dalla contrattazione collettiva nazionale.